Il Maestro, la sua relazione con l’Assoluto, la compassione

Con il termine Maestro mi riferisco a quella figura storica, Gesù di Nazareth, attraverso la quale ha preso forma un insegnamento e una prassi di vita originati dall’ampiezza del sentire conseguito dalla coscienza che l’ha generato.
Con il termine Assoluto mi riferisco a quel Padre con cui Gesù si sentiva unito.
La compassione di cui parlo, è la pratica d’amore che da quella unione con l’Assoluto deriva.

Frequento la vita del Maestro da molto tempo, la sua testimonianza e il suo insegnamento sono inscritti nel mio interiore, mi guidano, mi interrogano, mi consolano, mi sfidano.
Ho sufficiente cultura da saper discernere quanto nei vangeli viene attribuito al Maestro a ragione e a torto, appartenendo magari non a Lui, ma all’esperienza della prima comunità cristiana.
So anche che l’esperienza interiore che condurrà poi alla nascita della religione cristiana, è esperienza di più persone, ciascuna delle quali ha aggiunto un tassello di sentire e di pensiero al seme fecondo generato dal fondatore.

Non posseggo le sensibilità proprie dei cristiani, la loro devozione alla tradizione, il legame che coltivano con la loro comunità: non ho interesse per la religione che essi hanno edificato, guardo esclusivamente al Maestro, consapevole che, da Giovanni a Paolo, ciascuno di coloro che è venuto dopo di Lui ha vissuto qualcosa che in sé era già maturo, non generato dal Maestro ma liberato alla consapevolezza dall’incontro con Lui.

Premesso questo, voglio qui trattare della relazione/unione del Maestro con l’Assoluto, alla luce della mia comprensione interiore.
Ciò che colgo in Lui, è la fecondità di questa unione che ha travalicato la dimensione della relazione per divenire incarnazione di una unità.
La relazione avviene tra due soggetti, ma l’Assoluto non è un soggetto, è la dimensione che contiene tutti soggetti e in cui essi scompaiono nella loro specificità.
Allo stesso modo, un soggetto non incontra l’Assoluto: non è accessibile quell’incontro se si è identificati con la propria dimensione di soggetto; se la si perde, se essa è stata superata nelle comprensioni del proprio sentire, allora l’incontro/fusione avviene.
Non si incontra l’Assoluto nell’emozione, o nella mente: lo si incontra nel sentire, quindi su di un piano diverso da quello dell’identità; quell’incontro nel sentire genera riverberi emozionali e nel pensiero, nelle sensazioni e nell’essere complessivo e diviene esperienza unitaria di tutto l’essere.
Certo, ci sono emozioni che ci avvicinano all’unità, come ci sono pensieri che su di essa si affacciano, ma l’incontro avviene quando questi piani ci aprono al piano successivo, quello della coscienza, del sentire: più il corpo della coscienza è strutturato, più il sentire è ampio, più la fusione con l’Assoluto si amplia e diviene fruibile ai corpi inferiori e all’Io.
Se noi siamo legati alla sfera delle emozioni, se siamo identificati con il nostro pensare e credere, ciò che incontreremo non sarà l’Assoluto, ma l’idea che di Lui ci siamo fatti.
L’incontro avviene nella dimenticanza e nel vuoto di noi, dunque sul piano del sentire di coscienza che travalica la dimensione soggettiva ed identitaria, pur implicandola e coinvolgendola.
Quel piano è disponibile a tutti, evoluti nel sentire e non evoluti, ma non è accessibile se non nella disidentificazione da sé, nella perdita di sé: quando in noi c’è vuoto di noi, allora ciò che è sempre stato da sempre, appare, riempie, diviene fruibile attraversando i corpi, divenendo carne nella carne, emozione nell’emozione, pensiero nella mente.

Se l’umano ha perduto se stesso, allora la sua trasfigurazione è un fatto, in lui opera l’Assoluto così come può operare nei confini di quell’umano, di quel carattere, di quella mente, della cultura del tempo in cui l’incarnazione avviene.
Gesù di Nazareth è quell’umano vuoto di sé, riempito d’Assoluto. L’uomo di quel tempo ha interpretato ciò che gli accadeva, quella unione profonda che aveva preso forma nel suo intimo, secondo i canoni della sua cultura e di quella del suo tempo. Lo stesso hanno fatto i suoi discepoli, quelli che hanno vissuto un processo similare al suo, e quelli che l’hanno solo capito con le loro menti.
L’umano veste dell’Assoluto: questo è stato Gesù di Nazareth, e questo sono stati molti prima e dopo di Lui.
Da Lui, a partire dalla sua esperienza interiore, e da ciò che essa ha generato come segni e come insegnamento, si è dispiegato poi un disegno cosmico che ha coinvolto altri soggetti, anch’essi con una funzione peculiare nel disegno, fino a costruire un archetipo transitorio che, nel bene e nel male, accompagna una parte dell’umano da due millenni.

L’archetipo transitorio avrà fine quando coloro che in esso trovano nutrimento interiore volgeranno la loro attenzione altrove: se noi guardiamo all’archetipo, abbiamo frequente motivo di scandalo, ma non è questo che dobbiamo osservare, non l’uso che l’umano fa dell’oro, ma l’oro stesso.
Gesù di Nazareth è l’archetipo dell’umano realizzato: l’umano, vuoto della propria pretesa, del vincolo della propria egoità, diviene unità d’essere, splendore dell’Essere nel divenire, nel relativo, fino a giungere al superamento della nozione stessa di assoluto e relativo, per sperimentare una condizione unitaria a cui nulla manca e che prende la forma del darsi, dell’essere Amore-che-è.

Vedo in Gesù di Nazareth prendere forma, incarnarsi, l’Amore-che-è: attraversiamo i vangeli e troviamo le innumerevoli testimonianze di quell’Amore-che-è; separiamo il grano dalla pula, l’autentico dal condizionato aggiunto per cultura o non comprensione, e troveremo la sorgente di quell’acqua che tutti bramiamo e che pian piano colma le nostre mani.
Allo stesso modo, se osserviamo la vita di tutti i giorni, e se siamo capaci di discernimento non lasciandoci condizionare dalle nostre identificazioni e bisogni, vedremo quell’Amore-che-è nei volti di tutti coloro che abbiamo attorno, di coloro che incontriamo, in tutti quelli che consideriamo amici e nemici, in quelli che ci piacciono e non ci piacciono, in tutti gli esseri, dalle pietre al sovraumano.
Se in noi sarà sorto questo sguardo, questa capacità di vedere il principio primo dell’Amore che opera, dell’Assoluto che è sostanza d’amore che ci attraversa e ci impregna, allora riconosceremo in noi la stessa esperienza che ha vissuto quel fratello due millenni fa, e saremo capaci di riconoscerla operante in tutti quelli che incontriamo.

Questo è l’Assoluto-vivente, quello che i cristiani chiamano il Cristo vivente; questo ci conduce oltre ogni venerazione, oltre ogni forma religiosa, oltre ogni confessione di fede: chi conosce l’Assoluto-vivente che opera in sé, Quello diviene ogni giorno, e quell’esperienza lo conduce ad essere l’ultimo degli umani visibile solo a coloro che hanno occhi per vedere.


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7 commenti su “Il Maestro, la sua relazione con l’Assoluto, la compassione”

  1. Avevo già letto questo post, ma non avevo avuto il tempo di soffermarmici a sufficienza. Oggi l’ho riletto con attenzione e sono rimasta un po’ in meditazione, senza poter pensare nulla. Per questo non posso commentare. Dico solo che è per me come un richiamo ha toccato delle corde in profondità.

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  2. Mi manca un conoscenza dei vangeli approfondita. Spero sia possibile continuare gli incontri di Paolo, con l’apporto di tutti coloro che conoscono la materia.

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  3. Il Maestro si è consegnato totalmente ai suoi discepoli; non avendo lasciato nulla di scritto, sul piano della conoscenza di lui dobbiamo passare attraverso i loro racconti (i vangeli) che non sono una cronaca giornalistica “fedele” della sua vita ma un’interpretazione , frutto del sentire degli evangelisti e delle loro comunità. Dal piano della conoscenza razionale del Maestro si può passare alla connessione con il suo sentire, esperienza interiore che nella spiritualità cristiana viene detta “comunione con lui attraverso lo Spirito”; a questo punto gli intermediari svaniscono, non prima.
    Condivido pienamente quanto dici sul rapporto del Cristo con il Padre, è il tema portante del Vangelo di Giovanni; ultimo ad essere scritto dei quattro vangeli canonici, esprime il sentire delle chiese dell’Asia minore, quelle fondate appunto da Giovanni e a cui la tradizione cristiana lo attribuisce anche se è stato scritto dopo la sua morte. Sento una profonda riconoscenza nei loro confronti: la mia fede (intesa come sentire sulla natura del Cristo e dell’uomo) da loro mi è stata trasmessa. Mi sento come un anello di una catena agganciata ad un anello più grande cementato nella roccia (il Cristo).

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  4. A proposito di dimenticanza di sé… Mi vengono in mente tanti attaccamenti a cui faccio fatica a rinunciare. Segno che i tempi non sono ancora maturi, anche se ogni tanto fa capolino la percezione del mondo che tali attaccamenti nascondono…

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