Permanere nella radice di sé: l’eremo interiore

La vita nell’eremo con i suoi modi, i suoi tempi, i suoi silenzi è la conseguenza di una scelta: permanere nella radice di sé.
Quella scelta è stata compiuta molto tempo fa e non è fondata sulla volontà, ma sul piegarsi ad un’esigenza esistenziale.
Un’esistenza intera chiedeva tempo, ritmo, silenzio, lontananza dalle menti e dalle emozioni, abbandono al semplice processo del vivere così come si srotola nella routine dei giorni.
Solo chi vive qui può comprendere l’incolmabile lontananza dal mondo e la simultanea vicinanza con tutti gli esseri imposta dalla compassione.
Lontani dall’affanno del mondo non per meglio comprenderlo, non può essere questo lo scopo: la comprensione del mondo sorge dalla conoscenza di sé e di quello che in sé si condivide con ogni vivente.
È la conoscenza, la consapevolezza e la comprensione di noi che ci apre le porte dell’animo umano, del senso del vivere, della ragione del dolore, del valore delle relazioni, dello sguardo unitario che tutto questo tiene assieme.
Il permanere nella radice di sé è la condizione di base che permette il germogliare della compassione, il frutto maturo del processo appena descritto.
La compassione è lo sguardo che tutto abbraccia ed unifica.
Là dove la mente divide, dove il mondo frantuma, la compassione che sorge dal sentire vede l’Uno-mai-divenuto-due.
Il permanere nella radice di sé è l’abitare l’eremo interiore le cui pareti sono la compassione.
L’eremo interiore è un luogo incomparabilmente lontano ed incommensurabilmente vicino:
– lontano dal rumore di sé e del mondo;
– vicino alla radice di sé e di ogni vivente.
L’eremo interiore è una nicchia nel sentire: una vita intera risiede in quella nicchia e irradia la sua intenzione, il suo compreso, i suoi processi nella mente, nelle emozioni, nell’azione, nell’ambiente attorno.
Il permanere nella radice di sé è la vocazione del monaco;
l’eremo interiore il punto focale di quella radice;
la compassione è l’articolarsi, l’alfabeto di quella esperienza.
Lo spazio, il silenzio, la lontananza, il non essere costretti da vincoli, sono le condizioni ambientali necessarie all’esperienza di un presente che perde la connotazione del tempo, accade apparentemente sempre uguale a se stesso, mostra ciò che origina ogni accadere senza che la forma in cui si presenta ne veli l’immensa sostanza.
Permanere nella radice di sé, nella contemplazione dell’abisso di senso e di pienezza, nell’immobilità del non tempo dell’essere, nello spazio del risiedere, dello stare, del non-aggiungere, del non-chiedere, del non-rivendicare.
Stare-là-dove-Tutto-è senza che la volontà sia mai chiamata in causa: la scelta iniziale, ripetuta ogni giorno, mai è sorretta dalla volontà di perseverare: da cosa, allora?
Dalla fiducia, dall’abbandono, dalla resa, dal piegarsi senza fine a Ciò-che-è.
Serve la volontà nel processo della fiducia? Si, all’inizio.
Quando la fiducia è germogliata in noi, è essa che alimenta i processi e li sostiene: allora è la fiducia che vive, non noi.
È la fiducia che ci presenta il giorno, che lo dipana e lo conclude: è la fiducia che sostiene e accompagna, che illumina e richiama all’equilibrio.
È la fiducia che riporta a casa e chiude delicatamente l’uscio dell’eremo alle spalle.
Dovunque e comunque noi si cada, la fiducia ci riconduce senza sosta in quella nicchia nella radice dell’Essere.


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9 commenti su “Permanere nella radice di sé: l’eremo interiore”

    • A Roberta Il fatto che tu avverta il germoglio ti dice della sua presenza e della necessità esistenziale di coltivarlo. Cosa contrasta il sorgere di una disposizione nuova? Cosa del tuo comune modo di vivere non lascia spazio all’Essenziale?

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  1. “Il permanere nella radice di sé è l’abitare l’eremo interiore le cui pareti sono la compassione.
    L’eremo interiore è un luogo incomparabilmente lontano ed incommensurabilmente vicino:
    – lontano dal rumore di sé e del mondo;
    – vicino alla radice di sé e di ogni vivente.”
    Sento la verità di tutto questo e sento l’aspirazione a “permanere nella radice di sé”, anche se ancora il rumore di sé e del mondo mi distrae. E’ come se in me vivessero due spinte contrapposte, una che mi richiama ad esaurire l’esperienza del mondo per giungere allo svuotamento di senso e l’altra che mi riporta verso casa, un po’ come il marinaio che nei suoi viaggi per mare, non perde mai il ricordo del porto a cui anela tornare.
    Come sempre le tue parole sono come un faro nella nebbia. Grazie.

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    • Questa duplice spinta è fisiologica e permane finché siamo incarnati essendoci un compito nell’incarnazione.
      Si tratta di mantenere un ordine, una ecologia interiore: un occhio sull’essere, l’altro sul divenire e quando quello sul divenire prende il sopravvento, riequilibrare lo sguardo.

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  2. Premesso che ho la fortuna di vivere in un eremo esteriore che mi ha aiutato non poco
    se posso affermare di essere sufficientemente radicata in quello interiore, devo dire in merito alla compassione, che tu descrivi come le pareti dell’eremo interiore, che la avvertivo in me in sottotraccia, da tempo, poi gli accadimenti interiori (dovuti all’essermi radicata nel silenzio e nella quotidianità insignificante), uniti a quelli esteriori, hanno portato in superficie questo sentimento che ogggi avverto sempre di più presente nelle relazioni con persone, animali e natura in genere e che lascia nell’intimo un moto di leggerezza e di apertura fiduciosa.

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  3. sono consapevole di quanto affermi….non è sempre facile in ambienti diversi vivere la lontananza dal mondo….ma la nostra pratica di certo aiuta….soprattutto la fiducia sento essere la chiave di tutto ….grazie

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