Identificazione, vacua passività, neutralità

Il bussare del mondo è solo immagine, in realtà non c’è alcun mondo che bussa, siamo noi che ci sentiamo sollecitati dall’accadere dentro e attorno a noi.
Il mondo accade e, in sé, potrebbe essere solo uno scorrere di fotogrammi: quando questi ci riguardano, quando sentiamo che parlano a noi, quando ci interpellano inizia il processo dell’identificazione. Allora quei fatti, quei fotogrammi sono la nostra vita, sono quello attraverso cui conosciamo, diveniamo consapevoli, comprendiamo.
Questo è solo un aspetto del vivere che coinvolge, in forme e dimensioni differenti, molto del nostro quotidiano: a fianco di questa modalità, tutti ne sviluppiamo un’altra su cui molto vagamente poniamo l’attenzione.

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La fine della scuola?

Finisce un anno scolastico, ma purtroppo non finisce la scuola.
Il più grande cantiere di umiliazione delle risorse personali, sarà ancora lì dopo la pausa estiva.
Come può un sistema sociale fondato sul niente fare a meno della sua piallatrice, della sua macchina del vuoto?
Come potrebbe altrimenti produrre individui seriali privi di strumenti critici e di analisi, di capacità di gestione e di trasformazione di sé e della realtà attorno, disposti a farsi valutare senza fine, a farsi etichettare e incasellare, ad accettare la bulimia dei contenuti senza protestare, a rimanere prigionieri di spazi e tempi, ad essere trattati come polli in batteria?

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L’esperienza della vacuità e dell’inutilità da non confondere con la depressione

Non credo esista persona della via spirituale che non si confronti con l’esperienza dello svuotamento di senso.
Probabilmente non esiste persona che non si confronti con questa condizione interiore che, ciclicamente, si presenta all’esperienza umana.
La realtà viene sperimentata come vuota, priva di senso, incapace di attivare risposte e reazioni interiori: di fronte ad un accadere, a dei fatti, a delle situazioni o al semplice essere dei giorni la persona non prova interesse particolare, non sente l’accadere suo, non le riesce di attivare processi di identificazione.
La realtà le appare come fatto né interno, né esterno.
E’ un preciso passaggio esistenziale che si ripete ciclicamente, come tutte le cose che hanno bisogno di essere rivisitate più volte per essere conosciute e comprese.
La mente tende a mettere etichette su tutto e anche su questa esperienza esistenziale opera le sue riduzioni e approssimazioni: le sembra che definirsi depressa sia una sintesi accettabile, che quell’etichetta possa almeno contestualizzare uno stato.
Se fossimo capaci di utilizzare paradigmi esistenziali per leggere i nostri stati, non parleremmo di depressione; purtroppo, siamo così limitati nella interpretazione di noi che spesso non sappiamo guardarci con altri occhi e sviluppare altre letture.
Lo svuotamento e la perdita di senso sono il pane del cammino interiore e la loro esperienza ci interroga e ci interpella: se nulla ci appare apportatore di senso, è perché siamo ammalati? Siamo sani quando la nostra vita ci sembra valga la pena di essere vissuta?
Sano/non sano; senso/non senso: c’è una possibilità di non lasciarsi stringere dentro questa morsa duale?
Quale esperienza si può configurare, ci può attendere oltre quella del senso o del non senso?
E’ possibile vivere non curanti, non prigionieri di questa dicotomia?
Certamente, l’orizzonte altro si chiama gratuità.

Immagine da: Susanna Bertoni http://is.gd/xRMCwt