Il bene e il male nella comprensione del Cerchio Ifior

d-30x30Bene e male. Dizionario del

L’eterno dilemma su ciò che è bene e cos’è il male è stato presentato dalle Guide nei brani che seguono.
Certamente, non è un dilemma veramente risolvibile, perché nulla è davvero «bene» sempre e in qualsiasi situazione, così come nulla è «male» per l’eternità e in maniera imperdonabile.
Nel complesso schema della realtà che ci hanno presentato le Guide in questi trent’anni e oltre di insegnamento a poco a poco si è arrivati a comprendere la relatività dei concetti, il loro sfumarsi nei loro opposti, completando un circolo, un ciclo che porta, alla fine, a riconoscere che bene o male non sono altro che la diversa faccia di uno stesso aspetto, entrambi necessari per mantenere integra la Realtà e permettere, attraverso la sperimentazione diretta degli opposti nel corso del proprio percorso evolutivo, di ritrovare l’equilibrio a cui tutta la Realtà fa capo.

Messaggio esemplificativo (1)

Fin dai primordi dell’uomo e dai suoi primi, goffi tentativi di rappresentarsi la realtà che si trovava a dover affrontare nel corso delle sue esistenze, questi si è trovato di fronte alla necessità di distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, quindi, di dover fare una distinzione filosofica all’interno di ciò che stava vivendo.
Il semplice uomo delle caverne risolveva in maniera immediata e, per la sua semplice evoluzione, soddisfacente, la questione, forte della poca esperienza che ancora possedeva, derivante per la massima parte da quell’eredità di imprinting e di istinto che proveniva dal suo recente passaggio incarnativo attraverso il regno animale: era qualificabile come bene tutto ciò che aiutava la sua sopravvivenza (dal cibo, alle pelli per coprirsi dal freddo, al fuoco per rischiarare le sue notti buie e spaventose) e, invece, come male tutto ciò che poteva rendere il decorso della sua vita estremamente doloroso e difficile (dalla fame al freddo, alle malattie), finendo spesso col abbreviarne in maniera drammatica il protrarsi negli anni.
Poi, nacque l’idea di qualcosa di immanente, di invisibile, di imprecisabile che governasse la vita dell’essere umano, una larvata sensazione dell’esistenza di entità superiori che, con la loro benevolenza o con la loro accidia, condizionavano e indirizzavano la vita dell’uomo in maniera positiva o in maniera negativa.
Dapprima questa forza, al di sopra delle potenzialità umane, venne personificata negli elementi della natura, facendo immaginare ogni forza della natura come entità superiori di fronte alle quali l’uomo si trovava in balia della natura stessa: le piogge lo sferzavano, il sole illuminava i suoi giorni riscaldandoli, il vento asciugava le sue misere vesti, il mare flagellava le coste proclamando la sua forza irresistibile.
L’osservatore più attento di quelle epoche si accorgeva che la delimitazione tra i due termini contrapposti bene/male non era così precisa, anzi, spesso sfumava oppure era presente, in ogni elemento della natura, una tale ambiguità e ambivalenza che diventava difficile, all’uomo dell’epoca, dare ad ognuno di essi una connotazione precisa: se la pioggia scrosciante allagava la sua caverna e rendeva piene di terrore le sue notti illuminate a tratti dai lampi e squassate dal rombo dei tuoni contemporaneamente dava rigoglio alle piante di cui si cibava; se il sole dava sicurezza ai suoi giorni e calore al suo corpo poteva anche far bruciare la sua pelle e far seccare quelle stesse piante che erano una preziosa fonte di sussistenza; il vento che rendeva piacevoli le giornate estive rendeva spesso insopportabili quelle invernali; il mare che travolgeva le fragili imbarcazioni che l’uomo cercava di costruire per solcare le onde ospitava una fonte di delizioso cibo.
Finalmente Urzuk, il primo filosofo nella storia dell’uomo, arrivò a comprendere che le cose non stavano proprio come tutti avevano pensato fino a quel momento e che le forze della natura non erano vive – nel senso umano del termine, almeno – ma corrispondevano a leggi naturali, spontanee e non avevano caratteristiche tali da poter loro attribuire caratteristiche di benevolenza o di malvolenza.
Per voi, uomini raffinati del terzo millennio dell’era moderna, tutto questo sembra ovvio e persino banale.
Ma, riuscite a immaginare il nostro Urzuk che sforzo di creatività dovette compiere per abbandonare le antiche e fortemente vittimistiche concezioni del passato e concepirne di nuove? Non vi sembra che un tale epico sforzo avrebbe dovuto far sì che il suo nome venisse tramandato con gloria fino ai giorni vostri? Di fronte allo scorrere dei millenni, ahimè, la gloria, gli onori e la propria personale esistenza, per importante che sul momento possano essere sembrati, finiscono  con  l’offuscarsi e cadere  inevitabilmente nell’oblio, e del  «grande uomo» del passato, alla lunga, non resta traccia, se non nella catena di eventi che ha messo in moto permettendo al Grande Disegno di svilupparsi lungo le sue complesse vie.
Sono certo che una curiosità è nata dentro di voi: come ha fatto Urzuk, così limitato nelle conoscenze e nelle capacità intellettive a rendersi conto che le forze della natura non erano divinità benevole o malevole, a seconda delle occasioni, bensì semplici azioni meccaniche messe in moto dalla natura?
Possibile mai che voi, raffinati e sensibili pensatori del terzo millennio, figli della tecnologia e della conoscenza, piccoli sapienti a contatto con le grandi filosofie del passato e con gli insegnamenti attuali, non abbiate già sulla punta della lingua l’ovvia risposta?
Urzuk, nella sua semplicità, siccome non aveva la televisione o il videoregistratore o i libri per riempire le sue giornate, nel tempo libero osservava il grandioso spettacolo che la natura instancabilmente gli metteva in scena e fu così che un pensiero sfavillò nella sua coscienza:
«La tempesta infuria anche quando io sono bene al riparo nella mia grotta sopraelevata all’interno della montagna, il sole cocente non mi scotta se mi siedo al riparo di un albero frondoso, il vento non mi sferza più se solo giro l’angolo di una roccia, il mare percuote lo stesso le spiagge con le sue onde anche nei giorni in cui io non mi avventuro sulle sue acque. Non posso che arrivare a concludere che nessuno di questi avvenimenti è veramente rivolto contro di me, ma pioggia, vento, sole e mare continuano semplicemente a fare ciò che hanno il compito di fare, indipendentemente dal fatto di potermi nuocere o aiutare.»
Ora che ne ho parlato vi sembra una cosa così semplice da sembrare quasi ridicola, e, nella vostra altezzosità, magari pensate anche che, in fondo, il nostro Urzuk non ha conquistato una concezione poi così notevole…
Ah, creature mie, se ricordaste più spesso il ragionamento di Urzuk e lo faceste vostro ogni volta che vi lamentate di quello che vi accade, ogni volta che vi sentite come se il mondo intero fosse lì soltanto per crearvi delle difficoltà!
Ritornando al nostro Urzuk c’è poco altro da dire su di lui: non era certo un Leonardo da Vinci e per nobilitare la sua esistenza ha avuto soltanto quell’unico pensiero, abbozzo informe di un ragionamento filosofico, tentativo persino sorprendente – viste le possibilità di pensiero dell’uomo dell’epoca – di applicazione di quel processo logico che ultimamente abbiamo cercato di insegnarvi.
Dopo non lungo tempo ché la vita dell’uomo all’epoca, era decisamente più corta di quella dell’uomo attuale, Urzuk morì, come sempre accade all’uomo incarnato, anonimo e inconsapevole esempio dell’omerica frase: «nati non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza».
E, come sempre accade ad ogni individualità finché non ha portato a termine il suo programma di comprensione all’interno del piano fisico, Urzuk si reincarnò.
Il suo nuovo nome non ha importanza (per comodità continueremo a chiamarlo Urzuk, così come, per comodità, creeremo una improbabile linea incarnativa di Urzuk come simbolo dello sviluppo dell’idea di bene-male nell’uomo), ma nel tempo la sua minuscola idea era stata accettata dai suoi discendenti che le avevano apportato piccole correzioni e piccoli ampliamenti, cosicché essa era diventata ormai un elemento fisso delle concezioni dell’uomo, anche se non aveva avuto per molto tempo degli sviluppi significativi.
Ma il nuovo Urzuk era uno di quegli uomini la cui esistenza era necessaria al Grande Disegno per aggiungere nuovi colori e nuove forme alla sua complessità, ed egli non tradì il suo compito, ponendosi ancora di fronte al tentativo di comprendere meglio cos’era il bene e cos’era il male.
«Se – egli si disse – il bene e il male che mi accadono sono indipendenti dalla mia presenza sul pianeta (probabilmente non usò questo termine ma semplicemente l’equivalente del termine «mondo») è ovvio che non dipendono da me. Tuttavia io sento che esistono. Quindi deve esserci un qualche essere che ha in mano le redini delle vicende umane».
E nacque così il concetto di Dio: un essere immanente, al di sopra della realtà umana, che presiedeva a distribuire, più o meno capricciosamente o giustamente, benefici o disgrazie ad ogni essere umano incarnato.
Un Urzuk successivo, antesignano dell’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio nell’uomo e un po’ stufo di sentirsi in completa balia degli avvenimenti, si domandò come influenzare in qualche modo le decisioni divine in favore dell’umanità.
E così nacque il concetto di religione: magari, dimostrandosi servile, ossequente, adorandolo e facendogli offerte, l’uomo avrebbe potuto indurre la divinità a essere più spesso benevola che malevola, magari avendo un occhio di riguardo verso i suoi adoratori a scapito di chi non lo aveva riconosciuto come Dio e che quindi, con ottima probabilità, avrebbe attratto più facilmente su di sé il male, facendo beneficiare, conseguentemente, di una maggior quantità di bene, tutti coloro che amavano, servivano e riverivano il Dio.
L’Urzuk seguente – incarnatosi non molto dopo (ed infatti l’idea che questi escogitò è quasi contemporanea a quella precedente) – perfezionò furbescamente quanto ideato dal suo predecessore: “Siccome il Dio ha un caratterino niente male, potrebbe anche sentirsi infastidito dalle preghiere di tutti gli uomini che lo adorano: tutte quelle lamentele e quei piagnistei alla lunga possono risultare irritanti. Però, se un solo uomo si prendesse il compito di far da portavoce per tutti gli altri… oltre ad aiutare gli altri fedeli e a sollevare un po’ il Dio dalle mille e mille voce imploranti diverrebbe anche il primo beneficiario del bene divino».
E così nacque il concetto di sacerdote, necessario e insostituibile intermediario con la divinità.
Probabilmente, in qualche punto della catena reincarnativa il pensiero filosofico di Urzuk aveva incominciato ad incrinarsi, a mostrare qualche pecca, anche se dal punto di vista logico la successione delle idee che mise alla luce sembrarono ineccepibili nelle varie epoche in cui nacquero.
Infatti, nacque il concetto di Chiesa al fine di radunare in un unico corpo fedeli e sacerdoti. E poi il concetto di Papa, intermediario degli intermediari, uomo infallibile (da notare la contraddizione in termini dei due concetti), vicario in Terra di un Dio sfuggente.
E il concetto di bene e male? Gli Urzuk lo risolsero, infine, o no?
Ahimè, se ne disinteressarono, attratti da altre esigenze e da più immediate questioni. Non che la cosa venisse ignorata, semplicemente un Urzuk, forse il meno creativo di tutti gli altri, arrivò ad immaginare che la volontà di Dio è imperscrutabile e quindi il bene e il male sono imperscrutabili anch’essi in quanto espressione dell’intervento divino nella vita dell’uomo.
Ma, ormai, il primo Urzuk aveva dato il via – come sempre accade – a una catena di imitatori che, nei secoli, diedero vita alla filosofia, interessandosi a tutto ciò che riguardava l’uomo.
Il concetto stesso di bene/male venne esaminato nelle sue varie prospettive, creò linee di pensiero, tendenze di ragionamento, dal materialismo al pessimismo, dal materialismo storico di Marx alla psicoanalisi, mentre il concetto altalenava tra la ricerca all’esterno dell’uomo e la ricerca, invece, al suo interno, spesso contraddicendo se stessa e dando luogo a miriadi di concezioni.
Anche noi non siamo da meno e abbiamo proprio intenzione di parlarvi del bene e del male alla luce di quanto vi abbiamo detto nel corso di questi anni.
Alcuni di voi si annoieranno, altri ne saranno felici e se sarà un bene o un male per voi solo il tempo potrà dimostrarlo.
Resta il fatto che nel grande Disegno così sta scritto e, perciò, così faremo.

* * *

Nel precedente messaggio che vi ho fatto pervenire sul concetto bene/male, sono stati rilevati due presunti errori da alcuni di voi (ma solo da alcuni… questo perché gli altri non li avevano visti, o non avevano avuto il coraggio di sottolinearli, o avevano preferito ignorarli pensando che non avevano poi così tanta importanza, o, magari, perché non li avevano ritenuti errori? Credo che esaminare dentro di voi, uno per uno, il perché del vostro comportamento possa farvi capire qualcosa di più di voi stessi e di come vi ponete nei confronti di quanto vi comunichiamo, quindi vi prego vivamente di cercare di farlo).
Mi rendo conto che, probabilmente, avevo sopravvalutato la vostra possibilità di capire veramente l’ottica in cui stavo parlando.
Eccomi, perciò, qui a fornirvi gli elementi che avete trascurato nel muovere i vostri appunti (ma preferisco mille volte una critica sbagliata che nessuna critica) a quanto avevo scritto.
Il primo, il più banale e, secondo me, il più ovvio, è che il mio dire: «anonimo e inconsapevole esempio dell’omerica frase: «nati non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza» può avere diverse connotazioni, grazie alla complessità della lingua italiana: poteva voler significare – anche se con un certo sforzo linguistico perché ci sarebbe stato un modo più semplice di dirlo – che la citazione era attribuibile a Omero, così come hanno pensato alcuni di voi; ma poteva anche voler significare (e secondo me, linguisticamente è l’accezione più corretta del termine «omerico» in questo contesto) che la frase era di derivazione omerica in quanto, originalmente, omerico era il personaggio (Ulisse) a cui Dante attribuisce il periodo… «incriminato», anche considerato il fatto che lo strumento che uso, se pure imperfetto, ha fatto il liceo classico e, senza ombra di dubbio, è scritto nella sua memoria, da cui traggo spesso i concetti e le espressioni, che tale frase è dell’Alighieri e non di Omero.
Non sto cercando di giustificare un mio errore (quando il mezzo che si usa per fare qualcosa è imperfetto anche i risultati che si ottengono usando quel mezzo possono avere delle imperfezioni) ma sto cercando di allargare il vostro modo di esaminare le cose, ricordandovi che difficilmente c’è una sola possibile interpretazione per qualsiasi cosa con cui venite a contatto e, perciò, possedere una certa elasticità mentale è indispensabile per avere una visione più completa di quello spicchio di Realtà che, quando siete incarnati, potete abbracciare.
Per parlarvi invece della frase da me usata: «E nacque così il concetto di Dio: un essere immanente, al di sopra della realtà umana, che presiedeva a distribuire, più o meno capricciosamente o giustamente, benefici o disgrazie ad ogni essere umano incarnato.», devo ricordarvi che poco prima avevo usato lo stesso termine, dicendo: «Poi nacque l’idea di qualcosa di immanente, di invisibile, di imprecisabile che governasse la vita dell’essere umano, una larvata sensazione dell’esistenza di entità superiori che, con la loro benevolenza o con la loro accidia, condizionavano e indirizzavano la vita dell’uomo in maniera positiva o in maniera negativa».
Il mio ragionamento era sviluppato in rapporto alla prospettiva che teneva conto dell’evoluzione di Urzuk (cioè dell’essere umano) nei secoli e dei riflessi che essa aveva sul suo approcciarsi al concetto di bene/male, cioè al suo graduale avvicinamento ai dettami dell’archetipo bene/male (permanente, com’è ovvio) a mano a mano che il suo corpo akasico acquisiva granelli di sentire attraverso l’esperienza incarnativa.
È ovvio che nell’esaminare il concetto di divinità vi sia uno stretto rapporto tra le dualità bene/male e immanenza/trascendenza, le quali sono indubbiamente collegate indissolubilmente tra di loro, fino a costituire una sorta di completamento reciproco (come d’altra parte accade per tutti gli archetipi permanenti, i quali non sono mai ognuno a sé stante ma si integrano tra di loro al punto che, secondo me, risulta impossibile parlare di un solo archetipo permanente, se non correndo il rischio di un’approssimazione pericolosamente male interpretabile).
Se ricordate quanto avevamo affermato, avevamo detto che ogni archetipo permanente, per poter diversificare i percorsi delle sperimentazioni individuali ma anche per una sua necessità interna di completezza di vibrazione, non esprime un concetto singolo, ma una scala di gradazioni del concetto stesso che va da un polo all’altro del concetto (percorrendone la dualità degli opposti, come ad esempio bene/male) passando attraverso tutte le possibili sfumature e combinazioni intermedie: nell’archetipo «bene» è presente anche la sua contrapposizione duale «male» ma anche, che so io, la gradazione 10 per cento di bene e 90 per cento di male, o 50 per cento e 50 per cento e così via, che segnano tutte le possibili gradazioni (noi, di solito, le definiamo sfumature) per mezzo delle quali all’individuo incarnato è possibile sperimentare la realtà che attraversa nel suo incedere incarnativo. Ogni gradazione sperimentata, però, dall’ipotetico 100 per cento di bene all’altrettanto ipotetico cento per cento di male dà la possibilità di comprendere l’interezza dell’archetipo che si sta sperimentando.
Il mio uso del termine «immanente» teneva conto proprio di queste sfumature di gradazioni: per l’uomo più primitivo la divinità era pressoché totalmente immanente, tant’è vero che era ritenuto divino ogni fenomeno atmosferico e gran parte degli accadimenti naturali a cui era sottoposto: dal giorno alla notte, dalla luna al sole, dal tuono alla pioggia e via dicendo, insomma si trattava dell’animismo più profondo anche se la sensazione della presenza di un elemento di trascendenza era, comunque, presente, anche se l’individuo ne era poco consapevole.
Col passare dei secoli, l’immanenza della divinità perse in percentuale rispetto alla sua trascendenza ma si può dire (azzardando un po’ e riferendosi essenzialmente all’occidente) che, tranne sporadici episodi storici, fu con il cristianesimo che il concetto di trascendenza incominciò a sovrastare quello di immanenza, giocando, nel contempo, un ruolo determinante sulla determinazione di ciò che è bene e di ciò che è male nella concezione etico-morale non del solo individuo ma delle società che si sono andate via via formando e, di conseguenza, nel contribuire alla formazione dei vari archetipi transitori collegati alle molteplici società che via via prendono forma sul pianeta.
Naturalmente, c’è anche il rovescio della medaglia: malgrado il prevalere del concetto di trascendenza legato alla divinità quello di immanenza perde forza ma non scompare e anche la religione più «trascendente» nei secoli ha contemplato sempre una certa percentuale di immanenza, quanto meno come possibilità della divinità di intervenire nella realtà dell’uomo attraverso interventi diretti come, per esempio, i miracoli. Scifo

Abbiamo osservato di recente il concetto di bene/male nel modo più generico possibile, preoccupandoci, più che altro, di farvi notare lo sviluppo del concetto stesso, nei secoli, dal punto di vista della dinamica del suo sviluppo all’interno delle varie società umane di cui l’ipotetico Urzuk era un rappresentante di comodo per simboleggiare il più generico essere umano (2).
L’idea «bene/male» può essere fatta risalire, come genesi, a un archetipo permanente tra i più pregnanti, in quanto coinvolge l’individuo nel suo percorso evolutivo in tutte le fasi della sua storia passata e lo coinvolgerà anche, indubbiamente, nella sua storia futura: la ricerca del bene (ipotizzabile come tendenza ad avvicinarsi sempre di più all’ancora più ampio archetipo «amore») risulta essere, alla fin fine, l’ossatura dell’interiorità dell’individuo, la meta ancora incompresa che deve essere via via precisata per poter veramente arrivare a consonare con le vibrazioni proprie dell’archetipo dell’amore.
Nella «Critica della ragion pratica», Kant cantava le lodi de «il cielo stellato sopra di me e la legge morale al mio interno», arrivando a sottintendere, più o meno apertamente, che ogni essere umano ha un senso etico innato che trascende i dogma o i dettami di qualsiasi religione e che, da solo, sarebbe già di per sé sufficiente a indirizzarlo verso la migliore via da percorrere.
Rapportando questo concetto agli insegnamenti che vi abbiamo portato negli anni, questa intuizione kantiana si avvicina molto alla scoperta dell’esistenza di quegli archetipi permanenti che, abbiamo detto, risuonano nel Cosmo richiamandoci come fari subliminali verso la scoperta del bene e del male, dell’amore e, infine, di Dio stesso.
Una giusta osservazione che potreste muovere a confutazione di quanto ho appena detto sarebbe quella che sottolineasse come il concetto di «bene» (parallelamente a quello di «male») ha preso connotazioni spesso estremamente diverse nella storia dell’essere umano. «E allora – potreste chiedervi e chiedermi – non si riesce a comprendere com’è possibile che questo senso innato kantiano o, per parlare con la nostra terminologia, l’influsso dell’archetipo permanente in questione, abbia dato il via alla miriadi di concezioni diverse di quest’unico concetto.»
La risposta sarebbe abbastanza immediata e comprensibile intuitivamente ricorrendo ad altri concetti basilari dell’insegnamento quali la percezione soggettiva della realtà e il diverso grado di comprensione di ogni individuo che si accinga a dare una connotazione al concetto di «bene»; è ovvio che per l’individuo il concetto di «bene» è estremamente relativo in quanto strettamente influenzato dalla sua percezione della realtà e dal grado di comprensione, di sentire, raggiunto.
Io volevo, però, sottolineare un altro particolare che, assieme a quelli appena citati, può contribuire a dare una risposta più particolareggiata che spieghi in modo più complesso il perché della discrepanza tra il concetto di «bene» dell’archetipo permanente e quello elaborato dall’essere umano.
Senza dubbio il «bene» espresso dall’archetipo permanente è da ritenersi assoluto, in quanto comprendente in sé tutte le possibili sfumature dal «bene» al «male» che aiutano a precisarlo e a renderlo completo. E le vibrazioni che l’accompagnano sono uniformi e costanti nel tempo (caratteristica che – avevamo detto – accomuna tutte le vibrazioni tipiche degli archetipi permanenti): l’archetipo permanente non cambia nel tempo ma il fascio vibratorio che emana, nella sua complessità, è assolutamente identico in ogni epoca temporale e in ogni posizione spaziale nella quale opera.
Ciò che provoca la discrepanza che potreste aver sottolineato è la ricaduta degli effetti delle vibrazioni dell’archetipo permanente sull’umanità, e quest’effetto è dato  dalla  formazione degli archetipi transitori. Questi, infatti, dal momento che nascono dal tentativo di un gruppo di individui aventi vicina evoluzione (e, di conseguenza, vicina comprensione) di adeguarsi inconsapevolmente alle vibrazioni costanti e decise emanate dall’archetipo permanente senza però avere ancora la comprensione adeguatamente strutturata per poter vibrare veramente all’unisono con la vibrazione emessa dall’archetipo permanente. Ne consegue che la concezione del «bene» codificata dall’individuo è costruita attraverso approssimative interpretazioni personali (spesso sbagliate o fuorvianti) di quello che l’individuo «crede» di aver compreso totalmente, con risultati chiaramente, spesso molto distanti da ciò che l’archetipo permanente suggerisce costantemente come «reale», così reale da potersi ritenere assoluto. Su questo effetto vorrei che vi soffermaste con un po’ più di attenzione di quanto possiate aver fatto fino ad oggi: ogni archetipo permanente ha la sua «brutta copia», anche in molte copie, spesso diversissime tra loro, cioè un archetipo transitorio che cerca di imitare, per quanto gli è reso possibile dalla comprensione del gruppo di persone ad esso collegate, ciò che percepisce, attraverso le sue possibilità percettive e di sentire, l’idea «assoluta» espressa dall’archetipo permanente.
Come potete notare il discorso è ampiamente strutturato e complesso in una maniera stupefacente, pur essendo, alla fin fine, semplice sia nella sua logica, sia nella sua meccanica, sia nello sviluppo della sua strutturazione.
Ma non vorrei addentrarmi, adesso, in un discorso così complesso e difficile per tutti voi: ci riserviamo di ritornare su questo discorso in un’altra occasione, se sarà possibile farlo.
Ritorniamo, dunque, al nostro concetto di «bene», lasciando per il momento da parte le risposte più ampiamente filosofiche e limitandoci a quelle osservazioni più semplici che, con maggiore facilità, possono venire affrontate da ognuno di voi.
Una domanda che ognuno può percepire in attesa di risposta dentro di sé è: «Qual è il «bene» per l’individuo?».
È ovvio che non esista una risposta univoca a questa domanda ed è per questo motivo che vi suggerirei di osservare i vari punti di vista, le varie prospettive in cui essa può essere esaminata alla ricerca di un quadro più complesso di quello comunemente accettato.
“Qual è il bene per il mio corpo fisico?».
La risposta è a prima vista ovvia e banale: il proprio corpo fisico gode del suo massimo aderire al bene quando ogni sua componente è in perfetta armonia, senza scompensi, sbalzi energetici, sofferenze e malattie. In fondo, se ponete attenzione al vostro corpo fisico vi renderete conto che esso è un perfetto quanto complesso meccanismo che, per poter rimanere integro e manifestare la «vita» dell’individuo, necessita che tutte le innumerevoli parti che lo compongono non solo lavorino in maniera costante e adeguata ma, soprattutto, che queste parti riescano a interagire e a completarsi con tutte le altre permettendo la sopravvivenza fisica dell’individuo.
Per dirla come potrebbe dire Scifo, ancora una volta è individuabile il principio del «così in alto, così in basso»; basta assimilare il corpo dell’individuo al concetto di «cosmo» per notare l’analogia con ciò che nel cosmo succede, permettendogli di esistere, ovvero l’interazione tra le sue parti costituenti, la necessità della loro presenza e l’aderenza alla spinta evolutiva che proviene dalla Vibrazione Prima.
Sulla scorta di questi elementi potremmo arrivare ad affermare che il massimo bene per il corpo fisico dell’individuo è individuabile nel suo trovarsi nella condizione ideale per portare a termine il compito per cui è necessaria la sua esistenza, ovvero permettere all’individuo incarnato di immergersi nella materia del piano fisico ed interagire con essa in maniera tale da poter acquisire, attraverso i processi dell’esperienza, il maggior numero di elementi utili per consentire all’intero «individuo», di cui il corpo fisico costituisce solo un aspetto, di procedere nel suo percorso evolutivo aggiungendo sempre nuovi frammenti di comprensione che lo portano sempre più verso la riunione con il Tutto. In mancanza, interruzione o malfunzionamento delle sue parti costituenti – pur esistendo una certa elasticità e compensazione tra i veri elementi – il corpo finisce col non poter più essere uno strumento utile e, quindi, più o meno velocemente si degraderà fino a portare all’abbandono di quella materia fisica da parte dell’individualità a cui essa era collegata.
Sembra tutto così ovvio, sembra tutto così logico, sembra tutto così facile… al punto da arrivare a provare un grande stupore nel rendersi conto che l’uomo dovrebbe facilmente arrivare a comprendere che deve avere cura del proprio corpo come se fosse un bene prezioso mentre, evidentemente, questo non accade che raramente e, di solito, nei momenti in cui entra in gioco la sofferenza fisica e la paura di star male. Negli ultimi anni della vostra storia il vostro corpo viene vessato in continuazione dalle condizioni ambientali in degrado, dai ritmi di vita incalzanti, dal nascere di tendenze apertamente autodistruttive come l’attuale uso di forare labbra, naso, palpebre e quant’altro per inserirvi ornamenti metallici e non. È lecito domandarsi come mai si ha una tale noncurante indifferenza (quando addirittura non rasenta l’autolesionismo) nel benessere della propria fisicità.
Le risposte possibili sono molte, alcune talmente soggettive che bisognerebbe darle individuo per individuo, ma altre, invece, più facilmente generalizzabili. Ombra

1  Sfumature di sentire, vol. III, pag. 201 e segg.
2  Quest’ultima parte del messaggio non può essere compresa appieno se non si conosce la teoria degli archetipi permanenti e transitori presentati dalle Guide, ma abbiamo preferito lasciarlo per non interrompere la continuità del discorso che si andava sviluppando. Per approfondire la teoria degli archetipi si rimanda al volume sull’insegnamento filosofico.

Dal volume del , Dall’Uno all’Uno, Volume secondo, parte seconda, Edizione privata

Indice del Dizionario del Cerchio Ifior

L’ordinarietà del male

L’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina ha sollevato molte discussioni: non entro nel merito.
Salvo Riina descrive la banale quotidianità di una persona la cui vita è intrisa di distruttività, di male.
Possiamo ammettere che quella persona, quelle persone sono come noi? Amano i loro figli e la le loro famiglie, magari sono anche premurose e sollecite, non sono dei mostri.
Hanno una visione della vita e una loro morale e tengono assieme una fede primaria e infantile con la pratica feriale dell’omicidio e del malaffare.
Non sono dei mostri, perché abbiamo così timore di vederli nella loro quotidianità?
Perché dovremmo ammettere che l’orrore che è in loro potrebbe essere anche in noi?

continua..

Alcune considerazioni sul male e sulla malattia

Quando ho tempo e risorse, leggo ciò che scrivono Vito Mancuso ed Enzo Bianchi. Appartengono entrambi ad un mondo culturale molto lontano dal mio, ma li sento vicini nel sentire o, perlomeno, così mi pare che siano.
Ho seguito la discussione tra Mancuso e Veronesi sulla malattia e sul male (l’ultima, poco più di una settimana fa, ospiti di Fazio) e, in sincerità, mi è sembrato il dialogo di due ciechi che parlano della luce. Mi duole dire questo, lo faccio senza spirito polemico, senza pretesa di essere colui che ha visto la risposta; osservo con umiltà e con un dolore dentro questo girare attorno a questioni mal poste e come tali prive di risposta.
Da tempo volevo scrivere qualcosa sul male, su quello che gli umani chiamano male perché, dal mio punto di vista, esso non è altro che una lettura della realtà, una interpretazione: non un fatto, né una forza.
Semmai è un processo: anche la vita è un processo, non le mettiamo sopra un’etichetta univoca che la giudica, la definisce e non lo farei nemmeno nel caso del processo-male.
Il male è l’assenza del bene?
E cos’è il bene? Lo stato di salute fisica e mentale? L’unità dell’essere? La pace interiore e sociale?
Se desidero la pace, tutto ciò che non è pace rappresenta un problema.
Se sono consapevole che la pace è il frutto di un processo che dal conflitto conduce alla pace, allora mi si apre un mondo.
In questa ottica, il conflitto diviene una delle componenti del processo senza la quale non è perseguibile, né realizzabile la condizione di pace.
La pace assoluta contiene in sé tutti gli stati di pace relativi, limitati. La pace assoluta matura attraverso la pace relativa, l’assenza di pace.
Bene, male sono solo definizioni di condizioni che, in sé, sono processi, divenire, stati del sentire dove il più ampio contiene il più limitato.
Più a fondo, non esiste il processo del bene, né esiste il processo del male, esiste il processo del vivere la vita, del prendere forma e del dispiegarsi di questa ed, infine, del suo venire riassorbita.
Esistono dunque i fatti che vengono giudicati a seconda del paradigma di ognuno: il problema è lì, nel paradigma che considera la mancanza, il limite come male piuttosto che come condizione-dell’esistente-attraverso-la-quale-si manifesta-il-compimento.
Il compiuto contiene il limitato, il particolare, il frammento; l’assoluto contiene il relativo; la libertà contiene i mille gradi della non libertà.
Non esistono libertà e non libertà, esiste solo il processo della libertà: ogni non libertà prepara un grado superiore di libertà, anch’esso non libertà, fino a germogliare nella libertà assoluta che contiene in sé, che è costituita, da tutti i gradi di libertà possibili.
Se io sono nella condizione di manifestare un grado di libertà, di discernimento, di altruismo limitati, è questa una mia colpa? O non è invece lo stato dell’arte, ciò che mi svela, ciò che parla di me e mi indica la strada?
Il limite è il mio male, o la più grande delle mie possibilità?
Il limite, non denunciando una colpa, ma uno stato del sentire, cos’altro è se non il mio specchio più utile, più efficace, più trasparente, più trasformante?
Nel pensiero corrente il male viene associato alla malattia: la malattia è male. Giudicata, etichettata, archiviata, chiusa la discussione. Senza aver spiegato niente e aver capito e compreso niente. Ma pare su questo sia duro discutere, le resistenze interiori sono forti, i bastioni culturali a difesa, alti.
Sarebbe così semplice: come i fatti e i pensieri parlano di me, così pure i processi dei miei corpi parlano di me.
Scusate, ma di chi dovrebbero parlare? Pare non sia accettabile, pare sia più accettato parlare di origine ambientale, o sociale, o casuale della malattia. O di uno squilibrio non meglio definito nel sistema, magari di origine cromosomica. Si la chiave è lì, c’è un errore nel dna e così abbiamo risposto a tutto, quando non sappiamo rispondere a niente, tiriamo fuori la parola magica.
Ma non voglio parlare di ciò che non mi compete e su cui non ho competenze, mi sembra però evidente che il dna è anch’esso una risultante, il frutto di un processo.
Quando un programmatore, attraverso il linguaggio html, o altro, articola un programma, lo fa partendo da un’intenzione e da uno sviluppo di essa: quell’insieme di codici diviene poi qualcosa di fruibile ai sensi fisici umani passando attraverso una serie di mediatori. Se c’è qualcosa che ci appare come un errore nel codice, o l’ha fatto il programmatore contro la propria intenzione, oppure non è un errore, è un fatto, qualcosa di peculiare a quel programma.
La malattia è un errore? E’ un male? E’ una colpa?
La malattia è un fatto, un simbolo che narra la realtà. Quale realtà? La realtà esistenziale della persona.
La malattia non è un fatto esterno che si insinua nel nostro interno: parla di noi, dei nostri squilibri esistenziali, identitari, fisici, relazionali.
Noi e la malattia non siamo due, in sé non esiste alcuna malattia, se Roberto ha la febbre quella è la condizione esistenziale di Roberto quel giorno, quello è il Roberto di quel giorno. Quella febbre racconta qualcosa, svela qualcos’altro: è uno spot che illumina un particolare con l’intento di ricondurre a qualcosa che particolare non è, che ha caratteristiche esistenziali.
La stato che definiamo comunemente di malattia, sia fisica che psichica, è il principale indicatore, il più eclatante nel denunciare che in noi qualcosa non va: l’errore grossolano che commettiamo, è di considerare un organo, ammalato, un comportamento, sbagliato, senza cogliere il valore del sintomo che ci dice: “Sono il dito che indica la luna, il piccolo fatto che denuncia il processo!”.
Non abbiamo nessun paradigma maturo per leggere la malattia come simbolo esistenziale, ma molto è stato già fatto in alcune visioni alternative, ottusamente negate dai custodi ammuffiti dell’ortodossia.
Non abbiamo ancora gli strumenti, l’apertura mentale, l’umiltà, le comprensioni che che ci illuminino sul “dono” della malattia e del male.
Dono inteso come possibilità evolutiva, come chance di cambiamento presente e attiva, come simbolo ineludibile, come occasione che conduce a frutto.
Siamo lontani da questo, molto.
Per ora posso terminare qui; non volevo altro che avviare una riflessione; in me la visone è chiara, ma voglio che gli elementi di una evidenza si costituiscano nell’interiore di ciascuno come frutto di un processo sviluppato assieme. Se mi sarà possibile tornerò su questi argomenti in futuro.
Ho iniziato a scrivere questo post mosso dallo scoramento prodotto in me dal brano di Enzo Bianchi che sotto, in corsivo, riporto; in particolare dalla frase: “Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi.”
Parole che mi procurano dolore nel loro essere così lontane dalla comprensione di un’evidenza.

Questa azione con cui Gesù libera la donna dalla febbre (Mc 1,29-39) può sembrare poca cosa (“un miracolo sprecato”, ha scritto un esegeta!), ma la febbre è il segno più comune che ci mostra la nostra fragilità e ci preannuncia la morte di cui ogni malattia è indizio. Sì, Gesù è sempre all’opera verso i nostri corpi e le nostre vite e sempre discerne, anche dove c’è soltanto la febbre, che l’essere umano si ammala per morire, che qualunque malattia è una contraddizione alla vita piena voluta dal Signore per ciascuno di noi. Non fermiamoci dunque alla cronaca dell’azione di Gesù, ma comprendiamo come egli, il Veniente con il suo Regno, è in lotta contro il male e contro la morte il cui re è il demonio, colui che vuole la morte e non la vita. Gesù appare così come colui che fa rialzare, fa risuscitare – verbo egheíro, usato per la resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,41) e per la stessa resurrezione di Gesù (Mc 14,28; 16,6) – ogni uomo, ogni donna dalla situazione di male in cui giace. Egli vuole far entrare tutti nel regno di Dio, dove “non ci sarà più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore, quando Dio asciugherà le lacrime dai nostri occhi” (cf. Ap 21,4; Is 25,8)
Brano tratto da: http://www.monasterodibose.it/preghiera/vangelo/8942-come-gesu-cura-e-guarisce


Mancuso e Veronesi su Dio e il male: i limiti di un’analisi

Le fonti: l’ultimo libro di Umberto Veronesi “Il mestiere di uomo, Einaudi”; Vito Mancuso, Repubblica 18.11.2014.
Dice Veronesi: “Allo stesso modo di Auschwitz, per me il cancro è diventato la prova della non esistenza di Dio”.
Afferma chiudendo il suo articolo Mancuso: “La prospettiva più plausibile con cui rispondere alla domanda sull’origine del male è la medesima che sa rispondere all’origine del bene, cioè quella che rimanda all’impasto originario di logos + caos che costituisce il mondo nella sua concreta effettualità e che impone un modo nuovo di pensare Dio.”
Dal ragionare di Veronesi è evidente che la sua esperienza della fede è stata vissuta attraverso la ragione: adesione dunque ad un sistema di valori che è crollata non appena ha aperto gli occhi sulla natura complessa della realtà e si è impattata con la dimensione della distruttività, della malattia, del male inteso secondo il pensiero comune.
Veronesi vede i bambini invasi da cellule cancerogene e afferma: “Dov’è Dio?”. Non trovando una risposta nella mente propria e in quella degli altri, arriva alla conclusione che Dio non c’è perché se ci fosse non potrebbe ammettere un simile assurdo.
Nella sua vita di chirurgo e ricercatore oncologico ha sempre cercato l’origine del cancro nella dimensione biologica dell’individuo e in quella direzione ha speso le sue energie e la sua dedizione: non so se Veronesi ha mai posto in dubbio che il cancro non è solo fenomeno distruttivo che assale il corpo fisico umano, ma è processo che ha anche altra natura ed altra genesi; non lo so, non conosco il suo pensiero , prendo atto di ciò che afferma.
Prendo atto anche che sia Veronesi che Mancuso considerano il male una sciagura: Mancuso afferma che la sua origine va ricercata nelle forze del caos cosmico.
Entrambi sembrano essere convinti che se ci fosse giustizia, non ci sarebbe male.
Credo che possano affermare tutto quello che affermano con così tanta decisione, perché forse mai hanno provato a guardare al cammino umano da un’altro punto vista che superi le categorie filosofiche a cui entrambi aderiscono.
Il limite che trovo nelle loro analisi, nel loro indagare la realtà, è determinato dalla loro indiscussa adesione al modello duale: esiste il bene ed esiste il male; esiste la giustizia ed esiste l’ingiustizia.
Dentro questa morsa cercano le risposte, ma temo che faranno fatica a trovarle.
Non ho la pretesa di insegnare loro alcunché e quindi continuerò esponendo semplicemente il mio punto di vista conoscendone la provvisorietà e la relatività.
Ho avuto, nel corso della mia attività, la possibilità di accompagnare malati di tumore e genitori che avevano perso figli giovani.
Ho visto il dolore, il cammino attraverso esso. Ho visto la protesta, la rabbia nei confronti della vita e di Dio. Ho visto la difficoltà, la resistenza ad adottare un nuovo punto di vista sul vissuto. Infine ho visto il risorgere, o forse il sorgere per la prima volta, della fiducia, dell’esperienza dell’abbandono, l’affiorare di una trasformazione profonda e radicale nel pensare, nel sentire, nel vivere.
Ho visto radicali “conversioni” fiorire da quello che altri chiamano male e sono giunto alla conclusione che il cosiddetto male è un processo esistenziale che rivolta le vite di coloro che con esso si impattano.
Quell’essere rivoltati a volte conduce nel tunnel della rabbia, della frustrazione e del non senso e lì si ferma; altre volte passa attraverso quelle fasi e germoglia in una nuova vita, in uno sguardo esistenziale radicalmente altro. Da cosa dipende questa diversa conclusione del processo della malattia o del lutto? Dagli strumenti di analisi, di lettura, di interpretazione e dalle comprensioni acquisite dalla persona nel corso dell’attraversamento del processo.
Possiamo dire che la malattia è fenomeno biologico; possiamo affermare che Auschwitz è il frutto della distruttività umana e dell’assenza di Dio, ma così facendo non abbiamo spiegato niente, abbiamo solo osservato le manifestazioni e vi abbiamo posto sopra un’etichetta.
Cerchiamo l’origine del cancro nella sfera del biologico quando dovremmo cercarla in quella dei processi esistenziali; non solo nei conflitti relativi alla sfera psichica, ma in quella dei veri e propri processi di fondo dell’esistenza personale.
Cerchiamo una ragione ad Auschwitz nel pensiero, nell’emozione, nella intenzione umana, nella sua natura che a noi appare irrimediabilmente corrotta e non comprendiamo che quella malvagità origina dall’ignoranza di sé e della vita, dalla non comprensione, da una “cecità esistenziale” che è passaggio comune, ma non definitivo, di ogni essere umano.
Parliamo della vita e della morte con la stessa perizia con cui un cieco che tocca la gamba di un elefante parla di esso.
Concludendo, penso che non troveremo nessuna risposta fino a quando la nostra analisi della vita non imparerà ad includere la dimensione esistenziale, identificando in essa la sorgente della manifestazione cognitiva, emotiva, fisica.
Il nostro limite di analisi deriva dal paradigma che utilizziamo per interpretare noi, le nostre vite, l’accadere personale e collettivo: corpo-emozione-pensiero-eventuale-anima (che non si sa bene in che modo sia relativa alle altre componenti).
Prima o poi dovremo compiere un balzo e cominciare a considerare che non esiste lettura plausibile dell’esistenza se non si integra la componente coscienza, vale a dire la sorgente dei processi esistenziali, delle dinamiche cognitive, delle emozioni e delle sensazioni, delle azioni.
Siamo come pescatori che stanno sulla riva del lago, vogliono pescare, protestano perché non pescano niente senza interrogarsi sulla natura della loro esca.

Immagine da http://is.gd/7hTpw0