Tenzo Kyokun: operare a beneficio degli altri [17-19]

Tre paragrafi del ‘tenzo’ vengono qui raggruppati, ne risulta un post piuttosto lungo: le parti in carattere piccolo possono essere saltate senza perdere il senso dell’insieme.

17. Dopo il mio ritorno in patria, ho risieduto per circa tre anni a Kenninji. In quel tempio, anche se sventatamente c’era quel ruolo, era solo di nome, non c’era per niente una persona vera. E siccome ignorava trattarsi dell’attività di Buddha, a maggior ragione come avrebbe mai potuto discernere e conformarsi alla Via?

Davvero è da compatire, non avendo incontrato una tale persona [vera], trascorre il tempo invano, vagando vìola il comportamento della Via.
Osservando in quel tempio il monaco incaricato del ruolo, [era evidente che] non aveva a cuore nessuna cosa dei due pasti; si serviva di un servo senza un briciolo di cervello e di senso umano, dandogli indicazioni su ogni cosa, piccola e grande, senza poi occuparsi se facesse giusto o sbagliato, senza andare mai a controllare.
Somigliava a uno che, essendoci una donna nella casa vicina, trovasse vergognoso e disonorevole andare a trovarla. Se ne stava piazzato in una stanza, a volte sdraiato a faccia in giù, a volte in amichevoli conversari, a volte recitando sūtra, a volte recitando il nenbutsu, senza mai andare vicino alle pentole per lunghi giorni, per profondi mesi. Come poteva avere la capacità di acquistare gli utensili, di avere una chiara visione dei sapori e di tutto il resto? Come poteva svolgere quell’attività? Neanche a dirlo, neppure in sogno ha mai visto le nove prostrazioni prima di entrambi i pasti. Quando viene il momento di istruire i giovani novizi aiutanti, non sa proprio che fare.      

18.  C’è da vergognarsi e da rattristarsi per una persona senza lo spirito della Via, che ancora non ha mai incontrato la compagnia dei virtuosi della Via. È entrato nella montagna del tesoro, e ne torna a mani vuote, è giunto all’oceano del tesoro, e ritorna con il corpo vuoto.

Invero devi sapere che, anche se ora non ha ridesto lo spirito della Via, se incontra (vede) uno che è persona autentica[1] allora coglie la pratica della Via; o se anche non ha incontrato una persona autentica, ma è uno che nel profondo si risveglia alla Via, allora la sua pratica corrisponde alla Via. Ma siccome entrambe queste due condizioni sono mancanti, come ci sarà anche un solo beneficio?

19.  Come ho visto nei monasteri e nei templi del grande paese Song, coloro che accedono a ruoli di amministratori e di responsabili, anche se sono in servizio per un anno, mettono in atto i tre atteggiamenti caratteristici di un capo della comunità, e nel momento in cui ricevono un incarico li mettono in pratica, quando una circostanza si presenta ci si impegnano con zelo.

[I tre atteggiamenti spirituali sono:]
– Se operi a beneficio degli altri, anche il proprio beneficio abbonda;
– incoraggiare la comunità rinnovandone l’elevato carattere;
– stare spalla a spalla, competere testa a testa, ereditare le orme, sovrapporre le tracce.

A questo proposito, sappi che in verità è la persona stupida che guarda se stesso come un altro, è la persona saggia che considera l’altro come se stesso.

Dice un antico:[2] “Due terzi del giorno sono passati velocemente, neanche un singolo punto del piedistallo dell’anima è pulito e lucidato. Brami la vita e i giorni trascorrono insignificanti, seppur chiamato non giri la testa, che si può fare?”

Devi sapere che se non hai ancora incontrato un buon amico[3] vieni trascinato via dalle emozioni umane. Desta pietà, come lo stupido ragazzo che porta fuori il tesoro di famiglia ricevuto dal padre e vanamente di fronte agli altri lo tratta come spazzatura ed escrementi[4]. Che così non sia anche adesso.
(Versione letterale dal giapponese inedita di J.ForzaniScarica il testo con le note)

[1] honbun nin – lett. una persona che ha compreso la radice, una persona essenziale  
[3] zenchishiki (sanscr. kalyāṇa-mitra) – amico e consigliere del bene, riferito nel buddismo a Buddha stesso e al proprio insegnante maestro.
[4] Riferimento alla parabola del IV capitolo del Sutra del Loto


15. Dopo il mio ritorno in patria, anzitutto ho risieduto un primo periodo di tre anni al Kenninji. In quel monastero questo ruolo era preso sottogamba, era puramente nominale. Non c’era un reale responsabile. Non sapeva che questa è attività di Budda. Come poteva ardire di mettere in atto la Via e indicarla?  Fa veramente compassione che non si fosse mai imbattuto in un uomo autentico, trascorresse il tempo invano e capricciosamente infrangesse l’autentico comportamento della Via.
Da tempo osservavo il monaco che in quel monastero ricopriva tale ruolo: non sapeva amministrare le cose che concernono i due pasti. Utilizzava un servo che non aveva né cervello, né senso umano. Sia per le cose grandi come per le piccole, dava sommarie istruzioni e girava ad altri il lavoro. Mai una volta era andato a vedere se il lavoro era stato eseguito in modo debito o no, come fosse andare a vedere la donna della casa di fianco.
Sembrava che l’andare a vedere un altro significasse una vergogna o una ferita. Se ne stava in ufficio, a volte sdraiato, a volte a scherzare con gli amici, a volte a guardare i Sutra, a volte a recitarli, ma senza mai andare vicino alle pentole, per lunghi giorni, addirittura per mesi. Figurarsi se si preoccupava di programmare l’acquisto degli utensili, o di verificare il numero dei sapori! Ah! Esistono anche queste situazioni! Quanto alle nove prostrazioni che accompagnano i due pasti, non le aveva ancora viste neppure in sogno. Al momento di insegnare ai giovani, non sa ancora. Fa compassione, fa tristezza!

É una persona che non ha il cuore della via. Ancora non ha né incontrato né visto un compagno che è nella virtù della via. Anche se si inoltra nella montagna del tesoro, ecco, ritorna a mani vuote. Anche se raggiunge l’oceano del tesoro, ecco, ritorna senza portare nulla.

É vero: occorre sapere che pure chi non ha ancora ridestato il cuore della via, se vede un uomo coerente nella via, ecco, immediatamente raggiunge la via. Pure chi non ha ancora visto un uomo coerente nella via, se risveglia profondamente il suo cuore, immediatamente ottiene la via. Se ormai ambedue queste condizioni sono assenti, come ci sarà alcun beneficio?

16. Opposto è l’esempio della schiera di monaci che nei vari monasteri e pagode della Cina dell’epoca Song [da me visitati] ricoprivano i ruoli amministrativi e di direzione della pratica. Si applicavano con impegno e diligenza per tutto l’anno: attuavano i tre aspetti propri del priore del monastero, mettendoli in pratica momento per momento.

Confrontandosi con le circostanze spremevano il loro sforzo.
[I tre aspetti sono:]
– il beneficio altrui comprende già l’abbondanza del proprio beneficio;
– far prosperare la comunità è vivificare la sua alta qualità;
– spalla a spalla, teste che gareggiano, calcagni che ricalcano le orme: tutto questo con grande diligenza.

Chi guarda se stesso come un altro, questi è stolto; chi considera l’altro come se stesso, questi è nobile.

Dice un antico[1]:
Due terzi del tempo sono trascorsi in fretta,
non hai levigato un solo puntino del gradino dell’anima.
Bramando la vita, rincorri  i giorni vagando qua e là;
anche se ti chiamo, neppure volgi il capo.
Che si può fare?

Bisogna sapere che l’uomo, finché non è messo alla prova dall’intelligenza delle cose, è privato anche della sensibilità umana. Come fa pena che il figlio dissennato porti fuori di casa il tesoro di famiglia tramandato dagli antenati e, contro ogni buon senso, lo riduca in polvere di merda davanti a tutti! Che non debba essere ancora così![2]
(Versione del volume “E. Dogen, La cucina scuola della via, EDB, 1998”)

[2]É una storia molto simile a quella evangelica del figliol prodigo. Si trova nel Hokke kyo (Myo ho renghe kyo – Sutra del loto della meravigliosa norma). Vale la pena di accennare al contenuto di questo sutra, che è di fondamentale importanza nella formazione della sensibilità religiosa del buddismo mahayana. Consta di 28 sezioni, divise in due parti.
Nella prima parte è trattata la divisione del buddismo in tre veicoli, i primi due di impostazione teravada, il terzo di matrice mahayana:

sravaka (shomon), la persona che tende al proprio perfezionamento individuale, seguendo alla lettera gli insegnamenti attribuiti a Sakyamuni Budda;
pratyekabudda (dokkaku), colui che si risveglia alla via senza seguire un maestro e un insegnamento tradizionale, una sorta di autodidatta;
bodisattva (bosatsu) la cui caratteristica è comprendere lo comunione universale e l’abbandono della ricerca di una emancipazione individuale: di qui il voto di favorire il risveglio di tutti e di attendere che tutti siano entrati nel nirvana prima di entrare lui stesso.

La seconda parte del sutra nega valore assoluto a questa divisione e afferma l’esistenza di un solo veicolo, che è quello del Budda assoluto eterno (darmakaya – hosshin).
Tutti, nessuno escluso, anche prima della venuta del Budda storico hanno inerente la buddità, e tutti diverranno budda perché già lo sono.
Diverso è solo il grado di intuizione e di comprensione di questa realtà, e quindi la determinazione a realizzarla concretamente.    


15.  Eppure, anche nelle grandi comunità religiose che si ispirano all’insegnamento tradizionale, ho visto esempi di tutt’altra natura. Ho visto persone ritenere che il ruolo di tenzo fosse solo nominale: un titolo di cui fregiarsi, se lo ritenevano un onore, o di cui vergognarsi se lo ritenevano un ruolo inferiore. In nessun caso comprendevano che è l’attività completa e intrinseca di una persona che vive seguendo la direzione della Via. Come fa gente del genere, che non ha mai incontrato un esempio autentico, a guidare gli altri e a seguire la Via lui stesso? Per costoro la pratica è solo una perdita di tempo, un seguire il proprio capriccio.

Ho visto persone che non hanno la minima idea di cosa stanno facendo. Si fanno aiutare da altri più insensati di loro. Danno qualche indicazione generica, e poi si disinteressano completamente del loro lavoro, come se occuparsene fosse una cosa superflua o vergognosa. Passano il tempo in chiacchiere, o a leggere testi di cui però evidentemente non capiscono il senso, altrimenti saprebbero che la vera pratica religiosa è svolgere effettivamente il proprio compito.
Non sanno cosa sia la devozione sincera cui deve essere ispirato il proprio comportamento. Eppure insegnano ad altri giovani. Che disgrazia! Che pena!

Queste persone non hanno il cuore della Via, perché non hanno incontrato una persona con quel cuore. Allora, anche se svolgono un ruolo che è un tesoro, neppure se ne accorgono.
Anche se sono al centro della pratica, la cercano altrove.

É proprio vero: se anche una persona non ha ancora ridestato in sé lo spirito che fa comprendere la necessità di percorrere la Via, ma incontra però un amico che si comporta come persona della Via e riconosce il suo valore, ecco, in quel momento è lui stesso nella Via.
Se anche una persona non incontra un tale amico, ma sente in sé il pungolo della necessità di percorrere il cammino, allora per ciò stesso è nel cammino. Tale è il potere della Via. Ma se sono assenti entrambe le condizioni, come può esserci il beneficio?

16.   Ma non ho visto solo esempi così penosi. Ho visto anche persone che mettevano tutto di se stesse nel ricoprire il ruolo di cui erano incaricate. Sapendo che nello svolgere ogni ruolo ciascuno deve essere come un capo del monastero, che ha sempre presente tre punti:

– che operare a beneficio degli altri è premio a se stesso e contiene il proprio beneficio, senza attendersi nulla di più;
– che la vera prosperità della comunità consiste nel tenere alto il tenore della pratica e della vitalità collettiva;
– che l’eguaglianza fra i membri della comunità è data dal fatto che ciascuno dia tutto se stesso, ricalcando con i propri piedi le orme di chi ci ha preceduto e superandoli con la propria testa: se davvero mettiamo i nostri piedi nelle orme di chi ci ha camminato davanti, allora possiamo alzare la testa e vediamo più lontano ancora. 

Chi si sta a osservare, guarda e calcola come se lui stesso fosse un altro, come se fosse fuori di sé, si dà dei limiti che nascono dalle sue paure o dalle sue esaltazioni: è uno stolto; chi considera ognuno come se stesso, chi sa che gli altri sono parte di me, chi abbraccia tutto e tutti dentro l’unico , costui non si dà limiti e non li dà agli altri: dalla realtà ricava la propria ispirazione: è un nobile cuore. 

Dice un’antica poesia: Due terzi del tuo tempo sono già passati, la vita scorre in fretta. / Tu non stai vivendo, tu stai solo cercando di provare sensazioni. Rincorri i tuoi giorni senza direzione. / La tua vita ti chiama, anche con la mia voce: è qui, dove vai? Ma tu neppure la senti. / Che fare per aiutarti?

Bisogna sapere che l’uomo, finché non si confronta con le cose della sua vita così come le incontra, finché non si fa mettere in gioco dalla sua stessa vita, neppure può usare i suoi veri talenti di uomo. I doni che ha sono sprecati, e sperpera come insignificanti le cose più meravigliose che ha in sé. Disprezza pubblicamente ciò che dovrebbe apprezzare e coltivare: speriamo che non continui così!
(Ristesura in forma libera e commentata di Jiso Forzani: dal volume citato) 

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5 commenti su “Tenzo Kyokun: operare a beneficio degli altri [17-19]”

  1. Considerare l’altro come se stesso è un sentire che, pur se nascosto nel cuore dell’umano, di comprensione in comprensione si scopre che è così. Nella storia ce lo dimostrano i vari archetipi transitori che si sono succeduti sul concetto di uguaglianza tolleranza fraternità.
    Tuttavia è nell ‘Intimo dell’ uomo che questo sentire deve giungere a svelamento.

    Per quando riguarda il testo mi sono rimaste impresse le tre virtù spirituali ma credo di averle comprese dal testo oro finale, non mi convince la spiegazione data più sotto.

    La prima virtù è di facile comprensione.
    La seconda ci dice che se in un organismo si uniscono le intenzioni e il sentire, si innalzano il clima vibratorio e il sentire diventa uno.
    La terza virtù mi ha generato un senso di commozione”
    “stare spalla a spalla, competere testa a testa, ereditare le orme, sovrapporre le tracce”
    Procedere insieme, spalla a spalla, non lasciando indietro nessuno.
    Lavorare (più che competere) testa a testa, .camminando sulle orme di chi ci ha preceduto, vale a dire servendoci degli insegnamenti e delle esperienze dei monaci che sono venuti prima di noi e sovrapporre le proprie tracce con i confratelli a dimostrazione che si procede insieme, senza più distinguere gli individui bella loro singolarità.

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  2. La via è la semplice scoperta di ciò che sempre è stato.

    Ritovo nelle parole sopracitate un sentire che sempre è stato: da sempre ho sentito e considerato l’altro come me stesso. Una sorta di senso di “ingiustizia ” di “disagio” è sempre salito quando ho visto trattare l’altro come altro da sé.
    Forse ancora oggi è così, anzi sicuramente, e quel senso di ingiustizia, così mi viene da definirlo ancora, contraddistingue il quotidiano, ne costringe la manifestazione nel mondo della materia

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  3. “Confrontandosi con le circostanze spremevano il loro sforzo.
    [I tre aspetti sono:]
    – il beneficio altrui comprende già l’abbondanza del proprio beneficio;
    – far prosperare la comunità è vivificare la sua alta qualità;
    – spalla a spalla, teste che gareggiano, calcagni che ricalcano le orme: tutto questo con grande diligenza.”

    Di questi tre precetti colgo il senso del primo e del secondo.
    In particolare in quest’ultimo riconosco l’impegno del monaco ad alimentare la comunità, mantenendo alto il tasso di vibrazione.

    Non mi è chiaro il terzo punto, anche nella spiegazione:
    –” che l’eguaglianza fra i membri della comunità è data dal fatto che ciascuno dia tutto se stesso, ricalcando con i propri piedi le orme di chi ci ha preceduto e superandoli con la propria testa: se davvero mettiamo i nostri piedi nelle orme di chi ci ha camminato davanti, allora possiamo alzare la testa e vediamo più lontano ancora.”

    Se possibile, chiedo chiarimenti

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  4. le paure ci creano i nostri limiti é proprio vero…

    se guardiamo gli altri come noi stessi e non poniamo l’oro dei limiti anche i nostri limiti spariranno

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  5. L’intenzione.
    È in grado la “mia” intenzione di guardare oltre me?

    Mi ricorda quel pezzo della Genesi dove si legge “Adamo (o Uomo) dove sei?”

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