La via interiore oltre il mito della perfezione e la prigione del duale

Formato per la stampa (A4, 4 pagine)

“Figlio mio, se tu vuoi arrivare alla condizione ideale che ti permetta di superare il tuo egoismo, se tu vuoi arrivare a quella condizione che ti fa sentire parte del Tutto, e arrivare infine a farti sentire il Tutto stesso, devi riuscire a vivere la tua vita tra gli uomini, ma senza più essere mosso dal desiderio.
Devi vivere la tua vita spontaneamente, semplicemente facendo ciò che senti di fare non perché speri in quel modo di raggiungere la meta agognata, ma semplicemente perché l’agire in quel modo ti è naturale e spontaneo e non provoca nessuno sforzo, nessuna tensione in te”.
Questa è l’assenza di desiderio che viene tramandata dalle dottrine orientali e che, così spesso, viene mal compresa e mal accettata: assenza di desiderio non significa ritirarsi del tutto dal mondo, rinunciare, non possedere, non avere nulla, ma significa ad esempio avere del denaro senza farsi governare dal denaro, possedere la conoscenza ma far sì che la conoscenza non serva per prevaricare gli altri.
Assenza di desiderio, figli e fratelli, significa dunque riuscire a vivere la propria vita spontaneamente. Ananda
Tratto da:
La conoscenza, la comprensione, l’assenza di desiderio

[Quelli che seguono sono da considerarsi degli appunti di lavoro]

Riporto questo brano di Ananda – ampiamente condivisibile su alcuni piani di lettura – ma che mi suscita un certo grado di disagio su altri.
In esso trovo due accenti che nella mia vita cerco di evitare con cura:
1- la proposizione di assoluti, di stati di perfezione senza precisare a quale umanità – detentrice di quale grado di sentire – sono rivolti;
2- gli inviti a vivere una spontaneità, una naturalità in realtà inesistenti visti gli innumerevoli condizionamenti nei quali l’umano è immerso, condizionamenti che permarranno fino alla fine delle incarnazioni.
Ho già parlato in passato, e qui non vi ritornerò, della mia avversione agli assoluti così ricorrenti nella cultura cristiana e nell’insegnamento del suo fondatore; gli stessi assoluti si ritrovano lungo tutta l’evoluzione della via teosofica di cui il Cerchio Ifior è parte e con lui buona parte dell’esoterismo contemporaneo.
Ora, un assoluto proposto con sapiente dosaggio è uno stimolo a fare meglio e una indicazione della direzione e dell’orizzonte; un assoluto proposto sistematicamente e con assiduità è un modo per attivare forze interiori che insistono nel suo perseguimento anche quando esiste un evidente gap di sentire che ne impedisce la realizzazione: la conseguenza è la frustrazione, l’inadeguatezza, il ripetersi dei tentativi che vanno a vuoto e che influiscono sul giudizio che il ricercatore dà di se stesso e sulla solidità della sua fede e del suo cammino.
Il duplice obbiettivo del non avere desideri e del vivere spontaneamente proposto alla persona evoluta è un’ovvietà; proposto alla persona di evoluzione limitata con equilibrio è uno stimolo; ripetuto senza fine diviene un messaggio vuoto, pura espressione che non ha alcun portato e non impatta con l’interiore di chi ascolta perché questa la rifiuta nel suo inconscio, e se ne difende.
L’esempio più eclatante è lo stato dell’arte del cammino cristiano: assoluti senza fine, ipocrisia traboccante, perenne senso di inadeguatezza e di colpa, sostanziale svuotamento di ogni senso del messaggio. Sepolcri imbiancati fino a quando non mettono mano al processo del conosci te stesso: poi, e solo poi, se saranno in grado di superare il rifiuto per tanta cattiva pedagogia e didattica, torneranno a leggere quegli assoluti in un’altra ottica, con un respiro diverso che conosce la compassione per sé acquisita grazie al conosci te stesso.
C’è un limite grande nella stessa catechesi degli evangelisti e nella pratica delle prime comunità cristiane la cui esperienza è stata fortemente alterata dall’elemento emozionale-affettivo, e dalla componente entusiastica pompata senza discernimento.

“Devi vivere la tua vita spontaneamente, semplicemente facendo ciò che senti di fare non perché speri in quel modo di raggiungere la meta agognata, ma semplicemente perché l’agire in quel modo ti è naturale e spontaneo e non provoca nessuno sforzo, nessuna tensione in te”.
Questa espressione è ineccepibile, tranne per il fatto che non precisa a chi è rivolta: ad una persona di bassa, media, alta evoluzione?
È evidente che come esortazione vale a prescindere dall’evoluzione dell’individuo, ma come attuabilità no, non vale: ad una persona di bassa o media evoluzione questa espressione dice poco, o, se dice, può essere interpretata come una autorizzazione ad andare oltre il conflitto che normalmente l’accompagna, conflitto quantomai utile perché la conduce ad interrogarsi e a sottoporre ad analisi il proprio comportamento.
Voglio dire che l’ipocrita, per fare un esempio, ad un certo punto è inquietato dalla propria doppiezza e questa inquietudine è ciò che lo conduce a conoscersi, a divenire consapevole e infine a comprendere e dunque a superare quello stato.
La sua benedizione è l’inquietudine, il conflitto tra sentire ed identità che prende la forma del disagio: non gli rendiamo un buon servizio se gli diciamo di vivere spontaneamente quel che è.
Il discorso di Ananda non fa una grinza se è rivolto all’evoluto nel sentire, questi sta già lavorando sul superamento delle mete, sulla gratuità, sull’agire senza agire, sull’assecondare quel che è senza alimentare in alcun modo il desiderio.
L’esempio alto di Ananda, l’assoluto che propone non suscita nell’evoluto niente altro che un incoraggiamento, ricorda e puntualizza la via che sta già seguendo.
Nell’individuo di limitata evoluzione, quell’assoluto oltre a poter essere equivocato, può rappresentare un obbiettivo irraggiungibile che produce niente altro che frustrazione:
“Se tu vuoi arrivare alla condizione ideale che ti permetta di superare il tuo egoismo”
“Se tu vuoi arrivare a quella condizione che ti fa sentire parte del Tutto, e arrivare infine a farti sentire il Tutto stesso”
espressioni di questo tipo possono essere vissute come astratte, o come colpevolizzanti a causa del proprio limite, e comunque, quasi sempre, vengono semplicemente lasciate lì. Chiacchiere al vento.

L’espressione arrivare infine a farti sentire il Tutto stesso non ha senso alcuno per l’umano incarnato, gli è inaccessibile, non ha i corpi per vivere quella condizione: allora perché proporla? Per uno slancio mistico dell’autore? Va benissimo, se non è insistente, ma se è incastonata in altri assoluti genera non una risonanza mistica ma un eccesso e un cortocircuito che ne impedisce l’ascolto e l’assimilazione.

“Se tu vuoi arrivare alla condizione ideale che ti permetta di superare il tuo egoismo”, anche questa espressione che configura uno stato di perfezione è  irraggiungibile in modo pieno finché si è nella condizione di incarnati, perché dunque proporla come un orizzonte? Valgono le stesse considerazioni fatte sopra in merito al sentirsi Tutto.

“Senza più essere mosso dal desiderio”,
questa frase apre su di una indagine molto estesa:
– il desiderio dell’Io?
– il “desiderio” come riflesso sui corpi della “pressione” della coscienza che induce a fare esperienze e ad acquisire dati?
Quante sono le origini e gli sviluppi del desiderio? Può avere pace l’umano generato e mosso dal sentire di coscienza che senza fine ricerca dati e dunque introduce una spinta, una pressione, un indurre ad andare avanti, a cercare, a sperimentare fino all’ultimo giorno, o lì dappresso?
Ci sono le molte forme del desiderio che nasce nell’identità, e c’è quella pressione che induce ad andare avanti nella ricerca, ed entrambe ci accompagnano per tutti i nostri giorni: l’evoluto sa discernere l’uno dall’altra e vede stemperarsi il primo e sa cogliere le sfumature della seconda; il non evoluto semplicemente non sa di cosa si parli e si chiede perché mai dovrebbe rinunciare a ciò che gli conferisce il senso di essere vivo.
La persona di buona evoluzione e in sé onesta, si chiede perché mai la questione debba essere affrontata in questi termini così approssimativi, basati sugli opposti e sugli estremi.

“Assenza di desiderio, figli e fratelli, significa dunque riuscire a vivere la propria vita spontaneamente.”
Ecco, questa espressione non delinea la vita di un incarnato, ma quella di qualcuno che la ruota delle nascite e delle morti ha abbandonato da un pezzo.
Assenza di desiderio più spontaneità mal si conciliano con la presenza dei corpi transitori, del riflesso dell’Io che essi creano, del condizionamento cui ogni individuo è soggetto mentre è incarnato, condizionamento della consapevolezza che è all’origine della ragione stessa della sua incarnazione.
Espressioni come queste rappresentano una indicazione di rotta per qualsiasi umano, ma andrebbe precisata la loro portata:

non siamo incarnati per divenire perfetti da incarnati: lo siamo per permettere al corpo della coscienza di acquisire il sentire necessario a strutturarsi pienamente, dunque ad essere pronto ed attrezzato per recepire, a livelli più ampi e profondi, l’influenza della vibrazione prima e a divenire così veicolo efficace degli altri corpi spirituali in uno sperimentare che non ha più necessità di corpi transitori e di divenire.
Il sentire che viene manifestato in ogni incarnazione, non è mai il sentire globale, quello conseguito attraverso le molteplici incarnazioni, è sempre una frazione del sentire complessivo, dunque la vita che possiamo realizzare è sempre all’insegna di una perfezione molto relativa e questo per la semplice ragione che siamo qui con un compito, per un lavoro: i dati che acquisiamo dalla presente incarnazione vanno a sommarsi ai dati generali già in possesso del corpo della coscienza e, forse, quell’insieme complessivo è in grado di attuare quegli assoluti di cui qui trattiamo, il sentire nel suo complesso, non il sentire relativo in incarnazione.

Il sentire complessivo ha necessità che gli venga ricordato dove va, quello che può realizzare? No, lo sa da sé.
Il sentire relativo in manifestazione in una incarnazione ha bisogno di un linguaggio adeguato ai vari gradi del sentire incarnato, e dunque di bilanciare alcuni, pochi, assoluti con la gradualità del procedere delle grammatiche del conosci te stesso.
Concludendo: meno assoluti, più grammatica della conoscenza.

Una conseguenza diretta del non equilibrio nella proposizione degli assoluti, è quella di schiantare il ricercatore sul muro del duale: sei nel limite e l’assoluto verso cui tendi te lo ricorda senza pietà.
Certo che sono nel limite, ma ho infinite possibilità di viverlo al meglio, in modo realistico e pragmatico seguendo un approccio molto differente dal farmi mettere nell’angolo da una pletora di assoluti:
1- coltivando la conoscenza di me attraverso i mille strumenti che ho a disposizione;
2- facendo esperienza del non condizionato, esperienza possibile ad ogni vivente, qualunque sia il grado evolutivo raggiunto e senza bisogno di impattare sull’Io e sulle sue reazioni e creazioni, o senza lasciarsi condizionare da esse.
La porta dell’Assoluto è aperta a tutti e molti la oltrepassano nella più completa inconsapevolezza attraverso spontanee esperienze contemplative.
Allo stesso modo ci si può “sedere davanti all’Assoluto, dentro all’Assoluto”, in meditazione, superando il confine della percezione di sé, abbandonandolo e unendosi nello “stare”, nel “risiedere”.

È possibile una via non imprigionata nelle logiche del duale, che non ci stringa nella morsa del limite e degli assoluti, che, attraverso l’esperienza di noi così come siamo, ci permetta l’esperienza dell’unità con il Tutto?
Certamente sì, è la via seguita dallo Zen, e in ambito esoterico dalla Via della conoscenza e, nel nostro piccolo, dal Sentiero contemplativo.
Abbiamo sempre cercato di tenere assieme l’Essere con il divenire, consapevoli che ogni fatto, mentre accade, se non unito ad altri fatti, rappresenta una porta d’ingresso efficace e diretta alla condizione d’Essere, bypassando il vincolo posto da ogni limite e da ogni dualità.
In questa logica, il cammino interiore e spirituale integra gli apparenti opposti:

  • La conoscenza-esperienza ci permette di sperimentare i processi e la natura duale ed unitaria della vita;
  • la consapevolezza è il nostro sguardo su quei processi e sulla loro interpretazione, e ci permette di coglierne il respiro e di porci di fronte a quanto dal nostro intimo emerge, dunque al sentire conscio e inconscio che ci guida e ci ispira: la direzione del nostro procedere nel divenire avviene alla luce del conosci te stesso e della scuola della vita;
  • la pratica della meditazione-contemplazione disaggrega la sequenza dei fatti e dei processi e mette in risalto il singolo fatto che, osservato e contemplato nelle sue molteplici componenti, diviene la porta diretta e immediata per il superamento di ogni divenire e di ogni separazione.
    La meditazione – contemplazione, l’esperienza interiore che essa determina, è tale da condurre ad un approccio radicalmente altro con il Reale:
    – vivido diviene il presente, i fatti e la consapevolezza di essi;
    – essenziale e libera da orpelli la relazione con quanto si presenta;
    – sgombra da idealismi, assoluti, proiezioni, misticismi edulcorati la percezione dell’Unità;
  • la pratica della conoscenza-esperienza e del conosci te stesso unite a quella della meditazione-contemplazione, conducono infine alla comprensione, alla trasformazione del sentire.

Non si tratta dunque di negare che l’umano è soggetto alla trasformazione del sentire che avviene attraverso il vivere nel divenire e nelle logiche duali: si tratta di non incatenarsi a quella visione e, nello sperimentarla, avere gli strumenti per trascenderla, e questo a tutti i livelli evolutivi, non solo a quelli più avanzati.
È possibile tenere assieme divenire ed Essere, ed è possibile una via pragmatica libera dagli idealismi, dagli assoluti, dagli spiritualismi.
Per coloro che seguono questo Sentiero da tempo, non dovrebbe essere difficile rintracciare la sostanza di quanto qui andiamo affermando nei linguaggi, nella struttura di pensiero, nelle esperienze che in questi decenni abbiamo proposto.


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5 commenti su “La via interiore oltre il mito della perfezione e la prigione del duale”

  1. Come al solito, la visione è limpida. Questo post risponde perfettamente alla domanda che ho posto nel brano del Cerchio Ifior in questione. Grazie.

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  2. Direi che è chiaro. Proprio oggi pensavo che finché saremo incarnati permarrà sempre una certa dose di egoismo. Certo, sempre meno. Si tratterà alla fine di sfumature ma sempre egoismo sarà. Aspirare alla totale assenza di egoismo come condizione per accedere all’Essere significa condannarsi, come dici tu, alla frustrazione e all’impotenza.
    Ieri ho assistito alla testimonianza di due persone disabili che hanno saputo trasformare il loro limite in opportunità. Le domande purtroppo mi vengono sempre in mente dopo. Avrei potuto chiedere loro: “Quanto pensate che possa incidere sulle coscienze di chi vi ascolta la vostra testimonianza?”
    Non sono i modelli che ci permettono di acquisire nuove comprensioni ma l’esperienza.
    E non dobbiamo per fortuna attendere di raggiungere un certo livello di comprensione per poter affiancare all’esperienza del divenire quella dell’essere.
    Grazie

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  3. Hai fatto molto bene a porre l’accento sulle contraddizioni che hai rilevato nello scritto che citi poichè, ad una lettura superficiale, non saltavano proprio agli occhi. E’ poi l’argomento che hai trattato ieri con esaustività, sperando che la comprensione sia giusta nel nostro intimo. Per quanto riguarda il nostro processo evolutivo, guardato nell’ottica del divenire, l’indicazione non deve essere la perfezione o il vivere “semplicemente”, mete impossibili, come tu hai ben spiegato, ma, a mio avviso, quella che in ambito educativo Vygostky chiamava “area di sviluppo prossimale”, cioè guardare un passettino avanti per acquisire una conoscenza prossima a quelle già acquisite,cosa che non richiede sforzo ma, nel bambino un po’ di allenamento, nella nostra ottica, osservazione dei comportamenti.

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