La vita che mai riconosciamo abbastanza

Qual è questa vita che mai riconosciamo abbastanza? Quella che abbiamo.
Se la riconoscessimo non cercheremmo senza sosta altro e scenderemmo nel ventre di quello che ogni ora ed ogni giorno si presenta.
Se la riconoscessimo porremmo fine al rosario dei lamenti sulle altrui inadeguatezze e ci porremmo il problema di come accoglierle e di come valorizzarle per quello che sono.
Non metto in dubbio che esistano delle limitazioni, in noi come nell’altro, come nelle scene che bussano e chiedono di essere affrontate: esiste qualcosa che non contenga un limite nel divenire?
La questione non è il limite in sé, ma la sua funzione: ciò che viene, ciò che l’altro porta, nella sua limitazione assolve alla principale delle sue funzioni; quale?
Quella di mostrarci qualcosa di noi; quella di mettere in scacco una convinzione, una presunzione; quella di costringerci a cambiare punto di vista; quella di indurci a farci da parte; quella di costringerci a farci avanti.
In quest’ottica ciascuno ha il necessario per la fase esistenziale che sta attraversando: magari non ha il necessario per la sua mente, per i suoi bisogni, per la sua egoità e questo evidenzia una frattura che questa persona vive tra il necessario esistenziale e quello ordinario, identitario.
La persona, divisa da questa frattura, non riconosce il suo quotidiano, la sua vita ordinaria: quello che ha le è estraneo perché non lo ritiene adeguato al suo bisogno consapevole.
E se le fai notare quella frattura, ti dice: “Perché, non ho diritto a questo e a quello?”
La risposta corretta sarebbe: “Non hai diritto a quello che la tua identità chiede, il necessario a te lo hai già!”, ma la persona rifiuterebbe questa risposta e la leggerebbe come un impedimento a migliorare la propria condizione di vita.
Mi si osserverà che una donna che viene pestata dal compagno ha diritto a cambiare e non è vero che ha quel che le necessità: ne siete certi?
O forse va compreso il perché viene pestata: vanno comprese le ragioni psicologiche, quelle esistenziali e quelle karmiche; vanno consapevolizzate ed interiorizzate ed infine, avendo visto chiaro in sé ed avendo iniziato a comprendere, va denunciato quel compagno affinché finisca il calvario che porta.
Non c’è situazione da cui non si possa trarre esperienza, consapevolezza e comprensione.
Non c’è quotidiano sbagliato ad una lettura profonda.
Il compito nostro è di imparare a vederlo, a riconoscerlo, a celebrarlo per il valore che porta. Qual è questo valore?
Quello di essere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che in quel momento possiamo avere, il totalmente necessario a noi.
Il presente è l’assoluto necessario, il tutto cui possiamo aspirare ora: se potessimo avere questa lucidità di sguardo, se possedessimo la capacità di compenetrarlo di consapevolezza e di comprensione, vedremmo che a ciò che si presenta nulla manca e in pieno assolve alla sua funzione di insegnante.
Anche quando non abbiamo nulla di imparare, o così ci sembra, il presente che viene è comunque una opportunità di gratuità, di stare sulla scena non perché, magari, serve a noi, ma perché serve all’altro.
Avendo imparato dal presente, potremo andare avanti, potremo cambiare: solo quando abbiamo compreso è possibile un reale cambiamento.
Senza comprensione il cambiamento è solo di facciata: l’umiliato incontrerà ancora chi lo umilia.
Avendo imparato attraverso l’esperienza, la consapevolezza e la comprensione, quella scena non si presenterà più perché la sua funzione è esaurita: si cambia quando la lezione precedente è stata interiorizzata essendo il cambiamento niente altro che il volto esteriore di una mutazione nel sentire, di un suo ampliamento dovuto all’aggiungersi di una comprensione nuova che si somma alle comprensioni già consolidate e patrimonio del corpo della coscienza.
Se noi riconoscessimo la vita che viene ad ogni istante, la nostra esistenza non sarebbe più frantumata e divisa, il nostro prossimo non sarebbe altro e separato e ciò che viviamo ci basterebbe e ci avanzerebbe anche.
Se avessimo occhi per vedere, orecchie per ascoltare, compassione per accogliere ci arrenderemmo davanti alla perfezione del banale.
Di quello che le menti definiscono banale. OE,7.4


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6 commenti su “La vita che mai riconosciamo abbastanza”

  1. Queste parole mi sembrano possano bastare, cioè mi sembrano il compendio di un intero insegnamento…Su di me hanno l’effetto di farmi tornare qui dove sono, qui ad ogni istante…qui, dovunque io sia. Qui, cercando di vivere il paradigma dell’essere, senza tralasciare quello del divenire… Grazie!

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  2. Non essere tiepidi, non avere paura, osare. Accogliere le sfide che ci vengono incontro nel quotidiano, lasciando da parte il recitato della mente.

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  3. Venerdì sera, sollievo. Alla mente sembra che la vita sarà domani, giorno di riposo ma quale inganno! Non sappiamo del prossimo respiro e già ci proiettamo a domani? Illusorieta’ dell’illusorieta’.
    “Il tempo è compiuto” significa che non c’è nulla da attendere, che conta l’adesso. “Il Regno di Dio è vicino”, è nel feriale, è nel concreto ordinario, non fra le nuvole…
    Ma la mente ed il corpo godono il relax e tendono a rallegrarsi per il tempo libero.
    Necessità evidente di zazen, di tornare allo zero. Pigrizia e volontà si sfidano!

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