Non difendere e fiducia

Dice Natascia: L’accettazione dei propri limiti, il non voler difendere la propria immagine porta ad una grande libertà. A volte sento che non c’è più neanche un immagine da difendere. Questo però non di rado mi fa sentire disorientata, confusa. Sarà che quell’accettazione non è senza riserve!

Non rimanere abbarbicati alla palizzata del fortino.
Non sapere nemmeno se c’è più un fortino da difendere da qualcuno là fuori, unito alla consapevolezza che tutta la visione del reale è soggettiva, che il film di ciascuno è personale conduce semplicemente all’esperienza del non difendere.
Cos’è il non difendere?
Avere la chiara cognizione che non esiste il nemico, né il pericolo, ma solo la possibilità.
Vedere l’altro come colui che svela le nostre paure e ci permette di affrontare il non compreso.
Essere consapevoli di una direzione esistenziale fondata sulla disponibilità ad affrontare la vita e a farsi modellare da essa.
Non coltivare aspettativa. Non avere la pretesa di controllare l’accadere e lo svolgersi degli eventi, consapevoli che ogni scena generata dal nostro sentire è per noi, non contro di noi.
Essere pervasi da una fiducia di fondo, da un affidarsi.
Lasciare consapevolmente e deliberatamente che la bobina del film si srotoli, disposti a vederne e a viverne ciascun fotogramma, non preoccupandosi del fotogramma che verrà.
L’accettazione di sé è sempre relativa, tutto nell’umano è sempre relativo e quando questo è compreso e la smettiamo con gli assoluti, il cammino si fa più leggero.
Basta la perfezione dell’Assoluto, tutti noi che di esso siamo aspetto del sentire, possiamo accogliere la nostra relatività: non farlo denuncerebbe una pretesa egoica, un protagonismo. La smania di perfezione è moto dell’identità.
Questo processo che si dispiega nel tempo, non può non creare disorientamento nella mente-identità: essa si è costruita sulla pretesa di essere e di sapere, ed ora scopre di affondare la radice sul niente essendo ogni cosa soggettiva, relativa, illusoria.
Quella persona, giunta a quel punto, se non coltiva la vita nel sentire, e quindi genera un ancoraggio più profondo e più stabile, corre il rischio di rimanere nell’instabilità e nello sballottamento.
A quel punto la vita nel sentire non diviene più soltanto il fine di un percorso esistenziale e spirituale, diviene la necessità del quotidiano: la persona può indagare sempre più a fondo quel nuovo mondo e conoscerne gli alfabeti per quanto a lei possibile.
E’ iniziata una nuova stagione in cui è necessario tenere assieme l’umano, tutto l’umano e il superamento di esso.


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