La pratica è un lento morire [zq7]

Da Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO
Uno dei miei versi preferiti dello Shōyō Rōku dice: “Dall’albero secco sboccia un fiore”. Quando l’avidità e il desiderio umani finiscono, c’è saggezza e compassione: lo stato del Buddha.

Personalmente, dubito che uno stato del genere sia mai stato raggiunto nella storia dell’umanità, se non da pochissime persone. Tendiamo a confondere figure di grande forza e intuizione con un Buddha perfettamente illuminato.

[…] Se pratichiamo correttamente, possiamo avere la certezza di inoltrarci parecchio sul sentiero [della realizzazione, ndr] in questa stessa vita, forse con esperienze di risveglio che illuminano la strada. Ottimo. Ma non prendete sottogamba l’assiduo lavoro con le illusioni che si frappongono al cammino.

Prendiamo la ‘Cattura del toro’*: molti vorrebbero balzare dalla prima scena all’ultima. Può darsi invece che, arrivati alla nona, ci ritroviamo di colpo alla seconda. Il progresso non è definitivo e dato una volta per tutte. Per qualche ora siamo al decimo livello, poi torniamo al secondo. La mente è diventata calma e chiara grazie a un ritiro, poi arriva uno che ci critica e…

“Dall’albero secco sboccia un fiore”. O, in linguaggio biblico: “Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore”. La pratica è un lento morire, passo dopo passo, disidentificandoci gradualmente da tutto ciò a cui siamo aggrappati.
Se manteniamo ancora una piccola presa, non siamo morti.
Tutti siamo identificati con la nostra famiglia, ma disidentificarci da essa non significa cessare di amarla.

Oppure, considerate vostro marito, vostra moglie, il vostro compagno e il reciproco bisogno che si instaura.
Più pratichiamo, più il bisogno si smussa.
Il bisogno decresce e aumenta l’amore.
È difficile amare se c’è bisogno.

Se abbiamo bisogno di ricevere approvazione, non siamo morti.
Se sentiamo il bisogno di potere o di una posizione sociale, se non siamo contenti di un lavoro umile, non siamo morti.
Se abbiamo bisogno di apparire in un certo modo, non siamo morti.
Se vogliamo che le cose siano come desideriamo, non siamo morti.

Io non sono ancora morta in tutti questi modi, sono solo consapevole dei miei attaccamenti e non agisco spesso in base a essi.
La morte significa la scomparsa degli attaccamenti, e in questo senso un vero illuminato non è più umano. Non conosco nessuno così. Ho conosciuto molte persone notevoli, ma nessuna così.

A noi basta essere dove siamo e lavorare sodo.
Essere dove siamo è perfetto.
Identificandoci sempre di meno, accogliamo nella nostra vita sempre di più.
Questo è il voto del bodhisattva.

Così, più matura la nostra pratica, più possiamo fare, più possiamo accogliere, più possiamo servire. La pratica dello Zen si occupa di questo. La via per praticare è sedere in questo modo; quindi, lavoriamo con tutto ciò che abbiamo.

Tutto ciò che posso essere è ciò che sono in questo preciso momento: lo sperimento e lo uso come materiale per la mia pratica. È tutto ciò che posso fare.
Il resto sono fantasie dell’io.

*Titolo di una serie di disegni che illustrano lo sviluppo della pratica, dall’ignoranza all’illuminazione, attraverso la cattura e il progressivo addomesticamento di un toro selvaggio.

Charlotte Joko Beck, ZEN QUOTIDIANO, Amore e lavoro, Ubaldini, Roma.
La prefazione al libro e la presentazione di Charlotte.
Qui puoi scaricare il libro (non so come academia.edu e l’autore del caricamento risolvano il problema del copyright).
In questo post e nei successivi sono riportati solo alcuni brani del volume.


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9 commenti su “La pratica è un lento morire [zq7]”

  1. È il limite il punto focale, quello che l’autrice chiama “attaccamenti”. In quanto essere incarnati l’dea di poterci liberare definitivamente di tutti gli attaccamenti è una produzione della mente.
    Quanto è difficile per la mente accettare che non c’è progressione lineare e dunque non c’è scopo! Rimane solo il reiterato gesto del disconnettere e dare spazio, il più possibile alla vita.

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  2. Mi ritrovo completamente in ciò che l’autrice scrive.
    Non sono morta agli attaccamenti ma di questi sono consapevole. La pratica mi interpella e “tutto ciò che poso essere è ciò che sono in questo momento” come afferma l’autrice.

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  3. Si può dire che la chiave che apre le porte è proprio quella della consapevolezza.

    Consapevolezza dei nostri meccanismi costitutivi, delle nostre illusioni, dei nostri attaccamenti, delle nostre “cadute”.

    Consapevolezza di ciò che siamo in ogni istante.

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  4. “Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore”.
    Provo a far scendere le parole dentro di me e sento che non suscitano timore.

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