Si può combattere per l’altro?

Uso il termine combattere con cognizione di causa, intendendo con esso la disposizione interiore che ci porta a non risparmiare energie per difendere la causa dell’altro.
Nella mia giovinezza mi sono formato al pensiero e all’azione politica: allora combattere per l’altro significava difenderne i diritti e le libertà.
Nel 1974, o nel ’75, non ricordo bene, ci fu uno degli ultimi tentativi da parte delle forze di destra, di una parte dei corpi militari e dei servizi deviati di organizzare un colpo di stato in Italia: allertati in quanto militanti politici fortemente esposti alla rappresaglia, dormimmo fuori casa pronti a raggiungere un punto di ritrovo che ci sarebbe stato comunicato a suo tempo. L’indomani mattina ci fu il cessato allarme.
Non avemmo un dubbio, avremmo messo in gioco le nostre vite per salvarle e per la libertà di tutti. Avremmo combattuto con i mezzi necessari.
Quando attorno ai trentanni avvenne la svolta spirituale, cambiò lo scenario di fondo all’interno del quale ci muovevamo, ma non l’intenzione: nuove sensibilità ci permettevano di sentire il grido della terra e dei poveri violati e umiliati dall’egoismo del profitto.
Nulla cambiò nell’interiore quando a 41 anni smisi di lavorare per dedicarmi all’insegnamento e alla vita nell’Eremo interiore: l’intenzione era mettere a disposizione degli altri gli strumenti per realizzare e vivere la libertà interiore, libertà che a quel punto era divenuta libertà da se stessi.
Perché vi parlo di tutto questo? Per farvi comprendere che l’impegno per l’altro da sé altro non è che una declinazione del principio dell’amore, e che questa declinazione assume mille forme ma conserva una caratteristica di fondo: metterci l’interezza della propria esistenza, non una porzione.
Ecco che il termine combattere assume una connotazione più vasta e precisa: mettere la propria vita per la causa dell’altro.

Vi chiedo: non mettete la vostra vita per i vostri figli? Pensate a quei genitori che hanno figli diversamente abili, quale combattimento essi affrontano quotidianamente?
Non mettete la vostra vita per il vostro partner? “Nella buona e nella cattiva sorte” ha un significato per voi?
Non mettete la vostra vita per i vostri genitori quando li dovete accompagnare nella loro vecchiaia e a volte quell’accompagnamento è, per loro e per voi, un vero calvario?
Vi chiedo ancora: non trovate che in quella disposizione ad esserci, a combattere per l’altro, emergano dal vostro intimo forze e disposizioni di tutte le nature, dall’odio più viscerale, all’amore più incondizionato; dalla paura al coraggio; dalla disperazione alla fiducia immotivata e irrazionale?
Non è forse quel combattere un’officina dove si combatte per sé e per l’altro senza distinzione e senza soluzione di continuità?

Vi chiedo infine: non è un organismo comunitario e spirituale un luogo in cui vale la pena combattere per l’altro? Non è il luogo ultimo, perché è quello in cui è in gioco la libertà ultima e definitiva?
Nel cammino spirituale e nella comunità in cui lo attuiamo – perché tutti lo attuano in una comunità di relazione anche se i suoi contorni, a volte, sono molto indefiniti – non vale la pena spendersi fino in fondo e senza riserve per sé e per l’altro da sé?
Se non possiamo combattere per questo, per cosa allora? Vivremo e moriremo da tiepidi?
Ecco allora che quando la vita ci mette a disposizione dei fratelli e delle sorelle nel cammino, essi diventano non solo i nostri compagni di viaggio, ma i nostri maestri, coloro che ci permettono di scoprirci, di svelarci, come noi lo permettiamo a loro.
C’è relazione interiore più intima di quella che ti smaschera, ti mette a nudo, ti fa piangere e ridere di te e dell’altro?
Alla fine, il rapporto con i figli, con i partner non è questo? Non è tutto il sistema delle nostre relazioni interno a questa dinamica e funzione esistenziale?

Vorrei arrivare alla fine dei miei giorni
senza rimpiangere un gesto non compiuto,
una parola non detta a qualcuno che me la chiedeva,
un tempo non donato a chi sapeva farne uso.

Vorrei che ogni ora di ogni giorno
fosse un esporre la mia vulnerabilità,
il mio limite che è grande,
senza provarne rimorso, più di tanto.

Vorrei non dire mai:
temendo il mio limite,
ho finito per non dare,
per non combattere.

La vita è generosa con noi, ci offre tempo e opportunità: non c’è persona che non abbia a disposizione la sua officina esistenziale, alcune, addirittura, hanno la possibilità di frequentare fratelli e sorelle che consapevolmente tali si considerano e che, ciascuna con i propri tempi e modi, si mettono a disposizione per essere interlocutori efficaci, specchi impietosi, gesti che soccorrono, silenzi che accolgono.
Possiamo chiedere di più? Non ci faremo cogliere nel torpore quando l’altro chiamerà, né gli permetteremo di addormentarsi nel sonno dell’indolente: per come ci sarà possibile ci terremo vigili e daremo il nostro contributo affinché anche l’altro rimanga pronto, nei limiti del rispetto sacro per la libertà di ognuno.


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6 commenti su “Si può combattere per l’altro?”

  1. Spendersi per l’altro… a volte si fa senza pensarci troppo, si fa e basta, viene naturale, vuoi per comprensioni acquisite, vuoi per incoscienza. A volte c’è un misto di emozioni e di pensieri, derivanti da forze contrapposte, che vanno in direzione dell’altro da una parte e in direzione propria dall’altra, laddove la paura di perdere qualcosa condiziona il proprio dare. Allora è importante imparare a individuare le proprie reali intenzioni, a discernere le priorità, a cosa possiamo rinunciare per noi stessi, perché possiamo vedere chiaramente che questo non ci toglie nulla e cosa invece ci serve per preservare noi stessi da un conflitto insano…
    Ma in fondo poi, è molto semplice, l’amore che cresce dentro di noi, ci forgia e ci spinge in direzione dell’altro inevitabilmente, e gradualmente viene epurato dalle scorie dell’egoismo, fino a spingerci a donare la propria vita per l’altro, a morire per l’altro, un giorno forse anche in senso fisico.
    Morire per l’altro, lo facciamo tutti i giorni con i nostri piccoli o grandi sacrifici, tutti giorni pezzi di noi si sfaldano dalla nostra identità, a volte dolcemente, a volte con dolore, dolore commisurato alla resistenza che opponiamo al processo dello scomparire.

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  2. Il mio slancio verso i bisogni dell’altro che sempre mi ha accompagnato, lo vedo specie in età giovanile, frutto di un bisogno di accettazione e riconoscimento. Credevo, ero convinta, di essere altruista e invece rincorrevo me stessa. Molti errori ho compiuto in questo prodigarmi, a volte ferendo nel profondo gli altri e me stessa, pur cercando il bene. Con il tempo ho imparato a leggermi meglio, individuando quella parte egoica che spesso mi conduceva verso l’altro, non l’ho rinnegata né rifiutata ma non mi appartiene più. Ora mi trovo sicuramente più povera di idealita’ ma forse più autentica, maggiormente centrata sul moto interiore che muove il.mio dare , più consapevole dello spazio sacro che l’altro abita.

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  3. Questo post mi permette di indagare una questione che spesso mi pongo. Il mio impegno, il mio slancio sono gesti gratuiti o nascondono un bisogno di riconoscimento o di sentirmi “buona”? Come dicevi all’ultimo incontro, è chiaro che finché siamo umani, le nostre azioni sono spurie, ma comunque questo non deve inibire il nostro intento di andare verso l’altro. A questa difficoltà di comprendere la natura dello slancio, c’è poi un tentativo di capire quale sia la responsabilità di ognuno rispetto alla scena di difficoltà e/o sfruttamento che si presenta al mio prossimo e quale sia il mio ruolo in tutta la faccenda. Riconosco uno slancio rispetto ai temi di ingiustizia e povertà ad esempio, ma vedo anche che negli anni è cambiato il mio modo di pormi, molto idealistico prima, più compassionevole ora, ma forse anche più distaccato. Quando ci inviti ad occuparci dell’altro e fai l’esempio dell’accompagnare i propri genitori nella loro vecchiaia, la difficoltà a mettere in atto uno slancio puro d’altruismo è ancora più evidente. Mi chiedo: ma in tutta questa faccenda, dovrò o no tener conto anche di quelli che sono i miei bisogni e saper discernere quali sono le mie responsabilità e quali, quelle dell’altro? La questione mi è tutt’altro che chiara, ma come ben sai è il mio tema di sempre.

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  4. Grazie per questo contributo che può aiutarci ad una maggiore consapevolezza dei doni ricevuti e nel metterli a frutto. Avere dei compagni di viaggio nel cammino interiore rappresenta un sommo dono.
    Mi viene in mente la parabola evangelica dei talenti ed anche “La fonte preziosa” di Kempis che sabato non abbiamo avuto il tempo di leggere. Coltivare l’atteggiamento meditativo è buttarsi nella Vita cercando di non identificarsi, non rimanere ai margini.

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  5. Riconosco che ho avuto per tanto tempo la” disposizione interiore che ci porta a non risparmiare energie per difendere la causa dell’altro”. Ora non c’è più lo slancio ideale iniziale e mi sembra questa disposizione di averla persa, pur continuando a mettermi in gioco.

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