Il tentativo di piegare l’altro a sé: le varie forme di seduzione operano questo. Molta parte del sistema educativo e della stessa formazione spirituale e religiosa, manipola l’altro con l’intento di condurlo nel nostro mondo, là dove siamo a nostro agio e riteniamo sia giusto essere per noi e magari anche per l’altro. Perché, di certo, dove siamo noi è giusto essere.
Accade nel rapporto di coppia, nella relazione con i figli: direi che accade sempre fino a quando non abbiamo compreso la sottigliezza del meccanismo, i suoi mille travestimenti, la natura profonda del nostro condizionamento che riverberiamo sull’altro.
Siamo condizionati dall’adesione ad un complesso di archetipi: quella che chiamiamo identità, se depurata dal carattere e dalle finalità della coscienza, non è altro che un complesso di convinzioni e queste sono tutte riconducibili all’adesione a degli archetipi.
L’esempio più classico è quello del cattolico che definirei il “prigioniero” per antonomasia, colui che è in balia di ciò che crede, convinto anche che la sua fede, innanzitutto creduta, lo liberi.
Se tolgo da me tutto ciò in cui credo di credere, ciò a cui aderisco, ciò che mi sembra ragionevole e buono, cosa rimane?
Rimangono i fatti e il loro accadere semplicemente contemplati, ovvero privati di un soggetto che se li auto attribuisce.
Se tolgo dalle persone che ho accanto la pretesa di conoscerle, di ricondurle a me, di controllarle, di essere da loro rassicurato nel tentativo di contenere la mia ansia, rimangono solo persone – non partner, non figli – che vanno per la loro strada.
Se togliamo il ricondurre l’altro a noi, cosa rimane dell’affetto? E’ intrinsecamente connesso l’affetto al possesso, alla centralità di sé, alla visone ego-centrica?
Il cattolico è invitato alla missionarietà perenne. L’insegnante porta il bambino nel proprio mondo e lo plasma giorno dopo giorno fino a svuotarlo di sé, senza, ovviamente, riuscire a riempirlo di altro, avendo già lui tutto ciò che gli serve: non è questo un piegarlo a sé, una piallatura sistematica che ha l’intento di trasmettere ciò che noi riteniamo giusto e vero, invece di piegarci noi di fronte all’essere dell’altro e chiedergli – e chiederci – di cosa necessita, se necessita di qualcosa?
Là, dove la conoscenza dei processi e l’apprenderne la gestione ti fa sentire vivo, integro e portatore di senso, il venire ridotto a magazzino di contenuti ti umilia e ti azzera nella tua umanità: ma non lo vediamo e facciamo tutto questo nel nome dell’umanità e, qualche volta, anche di Dio.
Mi viene da dire che se tutto e di Dio, tutto a Dio va lasciato.
E quando non siamo certi di essere strumenti di Dio, è meglio lasciar perdere.
Ma, siccome ci sembra di essere strumenti di Dio, perché la nostra fede ce lo dichiara, allora operiamo in suo nome. Un vero orrore.
E se non operiamo nel nome di dio, operiamo nel nome dello Stato e delle nostre convinzioni relative a quello che lo Stato dovrebbe essere, fare, proporre e lo Stato diventa il nostro dio. Oppure il dovere diventa il nostro dio. Se non vi basta ancora, posso aggiungere che la nostra possibilità di vivere senza troppo sbatterci, diventa il nostro dio e allora l’altro va piegato alla nostra pigrizia, alla nostra indolenza, alla rinuncia alla creatività e all’originalità che abbiamo reso routine in famiglia, o nella professione.
Come la mettiamo, l’altro è sempre qualcuno da ridurre alla nostra centralità perché affermare la multicentralità è troppo faticoso per le nostre piccole menti.
Piegare l’altro a sé è così naturale che nemmeno ce ne accorgiamo. Quando in noi maturano le comprensioni adeguate, la nostra sensibilità si acuisce, la capacità di vedere la sottile pratica della manipolazione che senza sosta operiamo viene portata alla luce e, allora, inorridiamo.
Noi siamo il centro e l’altro è il satellite che attorno a noi ruota: disinnescare questa visione significa azzerare la propria centralità e questo non può essere fatto se non si dubita e si disaggrega il complesso di condizionamenti che in noi operano come automatismi.
Torniamo agli archetipi: la complessa rete di fili a cui siamo collegati e che ci permette di sentirci d’essere individui, di collocarci in un ambiente sociale, in un ruolo, con uno scopo; se tagli quei fili, non sei più nessuno.
L’identità è fondata sul credere e sull’aderire, non sul dubbio, non sulla disconnessione.
Il dubbio mina l’adesione all’archetipo e la disconnessione la recide senza sosta: questo operiamo quando è tempo, quando le comprensioni ci sorreggono e allora scopriamo la nostra solitudine, consegniamo l’altro a se stesso, viviamo la fine dell’affetto e, se siamo pronti, vediamo sorgere l’amore.
E se l’amore ancora non è sorto e l’affetto è morto, bene, il deserto è la nostra casa.
La presunzione di sapere che cosa è giusto per l’altro è sempre dietro l’angolo.
Altro post sul quale riflettere, grazie.