Il mito dell’accettazione incondizionata

Se due persone si accogliessero e accettassero reciprocamente in maniera incondizionata, tra esse non vi sarebbe relazione.
Questa condizione ha un senso se le due persone hanno terminato il compito delle loro incarnazioni e si apprestano ad abbandonare per sempre la ruota delle nascite e delle morti: fuori da questa situazione, quella condizione, nel divenire, è priva di senso.
Ciò che rende attivo e produttivo in termini evolutivi il divenire, è la tensione a congiungersi con l’Uno, dunque il perseguire un obbiettivo, una condizione esistenziale, dunque la non accettazione della personale condizione presente. Dalla non accettazione di quest’ultima deriva la non accettazione dell’altro, e il sorgere delle mille tensioni e frizioni che conosciamo nelle relazioni.
La pace interiore che la persona realizza è sempre momentanea e relativa: fattori di varia natura la turbano e la rendono precaria, destinata ad essere perduta a causa di moti interiori che si impongono.
Quei moti interiori sono in gran parte provocati dalla relazione con l’altro da sé, e in particolare dalla difficoltà a farsi comprendere, ad essere accettati, a sentirsi apprezzati e quindi giustificati nel proprio personale limite.
La consapevolezza del limite che macchia la nostra immagine ci tiene in una costante e sottile tensione: l’altro, ahimè, lì punta il dito e lì finisce per ferirci.

Se un genitore accogliesse senza condizione un figlio, questo, non sviluppando conflitto, si troverebbe di fronte ad un muro di gomma, non riuscirebbe a costruire una immagine di sé altra da quella del genitore, immagine che si crea nella differenziazione, la quale prende forma nel conflitto di vario grado.
Di vario grado e natura, sottolineo. Ci sono conflitti così delicati che non sembrano nemmeno tali; ce ne sono altri che sono eruttivi.
Il conflitto sorge da quella consapevolezza che ci porta a dire: non farò come te. Questo di te l’accolgo, questo no. Su quel no profondo e molte volte inconscio, si fondano poi tante delle posizioni e reazioni istintive che manifestano sia il genitore che il figlio.
Non esiste genitore che accolga senza condizione un figlio, perché non c’è genitore che non abbia costruito una immagine ideale del figlio stesso e dunque che non si trovi a doverla relativizzare.
Inoltre non c’è genitore che conosca il figlio, il quale rimane, in ampia parte, inconosciuto ed altro, impenetrabile e dunque irriducibile a sé.
Ma un genitore non sega il ramo su cui il figlio è seduto, e dunque sviluppa un’accoglienza relativa, quella a lui possibile e quella necessaria al figlio, alla sviluppo dei suoi processi esistenziali.
L’accoglienza possibile, non quella senza condizione; l’amore possibile, non quello ideale.
L’accoglienza possibile in un dato momento e in un dato contesto:
– relativa alle sfide esistenziali del genitore,
– e a quelle del figlio.
Un genitore che si colloca all’estremo dell’incondizionato, o a quello del rifiuto, produce danni importanti perché in entrambi i casi sabota la relazione e dunque la chance principale per il figlio di costruirsi una sana immagine di sé.
Quello che qui è affermato per il genitore vale in generale per qualsiasi educatore.

Una guida spirituale sega il ramo su cui il discepolo è seduto

Discorso completamente diverso per una guida spirituale, per un maestro, o un Buon amico come diciamo nel Sentiero.
Quando una persona incontra colui che l’accompagnerà incontro alla natura più profonda di sé, quella persona dovrà avere già percorso il cammino della identificazione e della costruzione di solide basi incarnative: se non l’avrà fatto dovrà farlo, da solo o facendosi aiutare da chi a quello è preposto e riscuote la fiducia della persona stessa.
Quando la persona arriva dal Buon amico, questo va innanzitutto a vedere la struttura umana che il potenziale discepolo ha edificato: sull’impressione che ne ricaverà, fonderà ciò che dirà e ciò che farà.
Ora, la complessità del reale vuole che non vi sia tra i discepoli di una guida alcuna uniformità evolutiva, e dunque coesistono persone con sentire diversi e a stadi evoluti diversi: per ragioni che solo la Vita conosce, queste persone sono state condotte presso quella guida e questa tiene in sommo conto le loro peculiarità, differenziando l’insegnamento, il linguaggio, i gesti, i simboli.
Il principio di fondo al quale il Buon amico si ispira, considera il discepolo innanzitutto come coscienza: dunque la relazione, in ordine gerarchico, è tra coscienza e coscienza, tra coscienza ed identità, tra identità ed identità.
Un B/a parla ad una coscienza e ad una identità, consapevole del cibo necessario all’una e all’altra: confermerà una identità quando necessario, la minerà quando opportuno.

Un B/a non ha il compito di condurre nel mondo per le ragioni che una identità trova nel mondo, ma ha quello di aiutare a scoprire che il mondo è il luogo della realizzazione dell’unità interiore con tutti gli esseri e con l’Assoluto.

Quasi sempre ciò che si interpone all’esperienza dell’unità è il prevalere delle istanze identitarie, l’identificazione che la persona ha con i bisogni, le aspettative, le domande del suo Io: un maestro questo lo vede e aiuta a svelarlo, indicando il velo e ciò che c’è oltre esso.
Il maestro aiuta dunque a svelare, fornisce alcuni strumenti, non aderisce alla narrazione del discepolo ma la demitizza, la dissacra, la destruttura fino a far emergere l’intenzione egoica che sottende.
In questo senso il maestro sega il ramo su cui il discepolo è seduto: per sua natura un B/a è scomodo perché estrae il discepolo dalla sua zona di confort e lo pone di fronte ad una diversa lettura dei fatti, lettura non consolatoria e frequentemente destabilizzante.
Se il discepolo è in grado di reggere la relazione, si accorge che quello che oggi lo destabilizza, domani lo illuminerà: ciò che oggi lo fa penare perché sembra non esserci soluzione al proprio non compreso, domani, ad un certo punto della maturazione del sentire, gli permetterà di compiere un balzo nella comprensione e quello che ieri lo feriva e lo confondeva, lo riempirà di gioia.
Un maestro non accoglie incondizionatamente nessuno sul piano dell’identità, accoglie incondizionatamente tutti su quello della coscienza: tutti sono coscienza, tutte le coscienze hanno i loro percorsi; ogni coscienza veste i panni di una identità che rappresenta il non compreso di essa.
Il maestro fa leva sulla dinamica che c’è nella persona tra compreso e non compreso, e si incunea nella tensione interna alla persona stessa facendo in modo che il non compreso in essa possa emergere in modo chiaro: tanto più è grande la capacità del maestro di accogliere incondizionatamente una coscienza e i suoi processi, tanto più essa smaschera le non comprensioni, i mimetismi, le ipocrisie, le ambiguità di una identità.
L’accoglienza di una identità da parete di un Buon amico è relativa, perché egli sa che una identità altro non è che un ologramma, una interpretazione, la risultante di un insieme di disposizioni fortemente condizionate dalle non comprensioni: a volte sta al gioco identitario, altre lo dissacra, nella misura in cui l’identità stessa può reggere il gioco. Sottolineo questa ultima affermazione.
In tutta questa opera un maestro è sorretto dalla compassione:
– compassione per sé, che lo rende consapevole dei prorpi limiti;
– compassione per l’altro, che gli permette di contemplare il cammino di quella coscienza e di interfacciarsi in libertà e rispetto con una identità, con una maschera;
– compassione per il processo stesso che i due si trovano a vivere e che trova un senso soltanto se è inquadrato non nella volontà dei singoli, ma in quella della Vita che quel rapporto ha disposto.
Un maestro è una figura scomoda, come le panche delle chiese: sega il ramo su cui l’identità è seduta e produce una caduta dell’illusione, un risveglio di un qualche grado alla Realtà.
Per il cercatore della realtà ultima, quella scomodità è benedetta; per tutti gli altri è solo scomodità.


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10 commenti su “Il mito dell’accettazione incondizionata”

  1. Se il B/a ci lasciasse nella nostra zona di confort non ci farebbe certo un bel servizio. Essere smascherati certamente genera un certo tasso di sofferenza ma è inevitabile. Qual è del resto l’alternativa? Rimanere attaccati alle proprie illusioni?

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  2. Sembra un paradosso, eppure questo post aiuta ad accettare il proprio limite di accettazione. Mi ricorda quanto sia importante prendere consapevolezza del punto in cui siamo, senza pretendere di incarnare un ideale che ancora non si è compreso pienamente e nello stesso tempo mantenere la chiara visione della direzione, quella che va da ego ad amore, quella che comunque ci porta a non accontentarci del limite e ad aspirare a nuove comprensioni, per ritornare all’Uno.

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  3. Maria / Luciana
    “Ma un genitore non sega il ramo su cui il figlio è seduto, e dunque sviluppa un’accoglienza relativa, quella a lui possibile e quella necessaria al figlio, alla sviluppo dei suoi processi esistenziali.
    L’accoglienza possibile, non quella senza condizione; l’amore possibile, non quello ideale.
    L’accoglienza possibile in un dato momento e in un dato contesto:
    – relativa alle sfide esistenziali del genitore,
    – e a quelle del figlio.”
    L’accoglienza relativa alle sfide esistenziali di entrambi, questa è la chiave.
    Un genitore non è maestro del proprio figlio, è genitore, il rapporto è diverso.
    Il discepolo torna a casa sua, un figlio non torna mai a casa sua: la relazione maestro/discepolo ha una natura diversa da quella genitore/figlio.
    L’accoglienza possibile ci dice che a volte il figlio va scosso, per il suo bene, e va fatto cadere dalla sua zona di confort.
    Un genitore di un tossico arriva a mandarlo in prigione.
    La caduta di un figlio può essere il suo più grande dono, la maggiore delle possibilità.
    Ma un figlio non torna mai a casa sua, un discepolo si: cosa vuol dire?
    Che sono relazioni diverse, nella loro componente umana, nella prevalenza di questa rispetto a quella della coscienza e nella dominanza della coscienza rispetto alla dimensione umana.
    In merito al cadere e alla fiducia, questo è l’ingrediente base sia per il genitore che per il maestro..

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  4. Grazie Roberto, l’argomento tocca le mie corde…e grazie a Maria.Scrivevo in contemporanea con Maria notando le analogie più che le differenze tra le relazioni un po’ come lei ha scritto nel post quando per un’errata manovra ho cancellato il post precedente e ho letto il suo. Mi associo quindi con quanto da lei scritto.

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  5. È Chiara l’analisi. Trovo tuttavia che a volte anche il genitore debba osare tagliare il ramo su cui è seduto il figlio o magari il suo stesso ramo nei confronti del figlio. Così come il maestro non può prescindere dalla relazione, a volte conflittuale, con il discepolo. C’è inoltre un aspetto relativo alla caduta derivante dal ramo tagliato, mi sembra che si possa accettare di cadere solo stando nella fiducia, in se stessi, nel maestro, ovvero nella Vita.

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  6. Il post a cui mi riferisco è il seguente:
    http://www.cerchioifior.it/lamore-che-non-ha-bisogno-di-essere-corrisposto/

    Se ad esempio nella vita mi si presentano relazioni in cui l’elemento del rispetto reciproco è ricorrente, poco me ne faccio di un amore che non cerca di essere corrisposto ma batto i pugni sul tavolo e faccio di tutto per attivare relazioni che includano il rispetto. Nella vita vera in realtà si tende poi ad essere essere remissivi, a fare un passo indietro, per non dar spazio a quella birichina della nostra identità che a volte è così sconveniente per un aspirante Monaco.

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  7. Alcune considerazioni non concludenti.
    Se metto in relazione questo post con quello di qualche giorno fa delle Guide relativo all’amore disinteressato emergono spazi di riflessione e di approfondimento. Amore disinteressato che non si cura dell’essere o meno corrisposto pertanto sembra prescindere da una relazione. Amore condizionato che invece cerca la relazione pur non per interesse. Sempre le guide suggeriscono di non sottrarsi alle scene che la vita ci pone a livello identitario o alle spinte identitarie finché queste si presentano perché evidentemente in quell’ambito c’è qualcosa da indagare, del non compreso da sciogliere.

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