Accompagnare i figli nella conoscenza di sé

Commentando il post Rimanere, senza fine, in ascolto del sentire, Paolo chiede come possiamo aiutare i nostri figli nella conoscenza di sé.
Direi che possiamo senz’altro aiutarli attraverso:
– la testimonianza del nostro cammino esistenziale;
– i codici/simboli del nostro linguaggio;
– l’offerta del nostro paradigma.
Vivendo testimoniamo il compreso e il non compreso: i figli sono immersi nell’ambiente vibratorio che sta tra i due estremi della comprensione, essi respirano il compreso come i nostri conflitti, ciò che possiamo offrire loro è la nostra consapevolezza sui nostri processi, sul nostro procedere ed, ovviamente, anche sul loro.
Non si tratta di caricarli delle nostre dinamiche, ma di rendere l’ambiente familiare luogo consapevole di comunicazione dei vissuti nostri e loro.
Il linguaggio, i suoi simboli esprimono ampia parte di ciò che siamo: il nostro linguaggio di quale paradigma è figlio?
Della vittima? Dell’artefice? Del responsabile? E il nostro comportamento che relazione ha con il nostro pensiero e con quanto da noi affermato?
C’è in noi continuità e coerenza tra intenzione/pensiero/azione? Quell’ambiente vibratorio coerente, o incoerente, è l’ambiente in cui i nostri figli cresceranno.
Non si tratta di essere i maestri dei nostri figli, un genitore non è un maestro, né è un predicatore, né un bacchettone, né dovrebbe essere un invertebrato.
Un genitore e un figlio crescono assieme, impastati, e l’ambiente vibratorio che i genitori creano è fondamentale e permetterà ai figli di attraversare fasi non facili della loro crescita.
C’è una educazione alla conoscenza di sé passiva, ed è quella che ho tratteggiato, e ce n’è una attiva fondata su poche disposizioni chiave che vanno trasmesse nel tempo, ripetendole e suggerendole quando necessario senza divenire pedanti.
Le espressioni/chiave della formazione attiva:
– ascoltati e ascolta;
– osservati e osserva;
– interrogati e interroga sulle tue e altrui motivazioni;
– coltiva un’intenzione chiara;
– chiedi ciò che ti necessita ed esprimi il tuo bisogno;
– agisci per dar luogo ad una tua intenzione;
– impara a scusarti e a fare un passo indietro;
– impara a ricevere;
– impara a tacere;
– impara a ringraziare.
Sono dieci disposizioni che dovrebbero innanzitutto illuminare il cammino feriale dei genitori e che, attraverso la testimonianza quotidiana, conferirebbero loro autorevolezza.
Sono mille i modi per invitare un figlio ad ascoltarsi e ad ascoltare, a fare chiarezza in sé prima di prendere una decisione, a chiedere scusa quando è opportuno, a ringraziare quando necessario.
Un genitore non è un maestro, lo ripeto, e si impasta con i figli che crescono sbagliando il più delle volte, o essendo inadeguato: non è questo il problema.
Non è la nostra umanità che è di intralcio ai nostri figli, è l’assenza di contatto con noi stessi, con la nostra natura, con il nostro essere più profondo che ci rende inefficaci: quando non siamo credibili esistenzialmente, non siamo nemmeno autorevoli. E se non siamo autorevoli per i nostri figli, siamo ombre che vagano.
Un genitore non fonda la propria pedagogia sulle prediche, l’appoggia sulla testimonianza e sulla ritmicità degli impulsi, delle proposte, delle sollecitazioni: a nulla serve insistere sull’ascolto con un figlio non pronto ad ascoltare, ma si può impregnare l’ambiente di ascolto e si può, ritmicamente, creare situazioni familiari di ascolto in cui il figlio è direttamente coinvolto.
A mio parere non c’è una ricetta buona per tutti, c’è una disposizione di fondo che il genitore dovrebbe acquisire insieme ad una consapevolezza che mai è abbastanza coltivata:
– i figli non vengono a caso nella nostra famiglia, vengono perché le loro coscienze ce li conducono e dunque noi siamo ciò di cui hanno bisogno per sviluppare il necessario a loro. Se così è, allora il genitore dovrebbe smettere di sentirsi inadeguato e dovrebbe caricarsi sulle spalle la responsabilità di quello che lui è.
Quel figlio è li per sé e per quel genitore, entrambi trarranno il massimo beneficio da quella relazione.
Stando così le cose, il genitore è chiamato al più alto grado di consapevolezza di sé e di conoscenza del suo essere perché è quello che innanzitutto offre alle creature che la vita gli ha affidato.
Il tema è sconfinato e non ho la pretesa di averlo nemmeno abbozzato: le dieci disposizioni proposte, ad esempio, quanto sono fondamentali anche nella formazione spirituale di un figlio? OE22/2.5


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8 commenti su “Accompagnare i figli nella conoscenza di sé”

  1. Ache per me questo è un tema fondamentale che impegna la maggior parte delle mie energie quotidiane. Il percorso che facciamo insieme mi ha aiutato molto in questi anni a pormi in modo diverso verso i miei familiari, figli e compagno, e credo che loro se ne siano accorti.
    Mi sforzo di non giudicare ed ho abbandonato molte pretese; quando mi accorgo di farlo ancora faccio un passo indietro e chiedo scusa. Rimane, naturalmente, la fatica del lavoro in officina e l’inadeguatezza del genitore di fronte alle sfide che i figli ti pongono. In questo momento, avendo figli adolescenti, il tema più importante è quello del rapporto figli-mondo esterno (società, stili di vita) e l’educazione alla vita spirituale (o religiosa?)
    Grazie.

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  2. Grazie per queste indicazioni, valide a prescindere dall’essere genitori o meno. Le dieci disposizioni sono da tenere sempre presenti per illuminare il nostro cammino di adulti dal punto di vista anagrafico, ma spesso di bambini nel modo di relazionarci con il nostro prossimo.

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  3. Ho letto questo post con molto interesse, perché mi capita speso di chiedermi cosa posso trasmettere alle persone che incontro e, in particolare, ai più giovani. Sono d’accordo che “non si tratta di essere i maestri dei nostri figli, un genitore non è un maestro, nè un predicatore…”. Quando sto con i miei nipoti, mi capita talvolta (soprattutto ora che sono più grandi) di non avere risposte alle loro domande e allora rispondo che “non lo so” ed il bello è cercare la risposta insieme, crescere insieme.
    Non avevo mai focalizzato l’importanza di trasmettere ai più giovani un linguaggio figlio del paradigma dell’artefice piuttosto che della vittima. Questo linguaggio devo impararlo per prima io, dal momento che mi sorprendo spesso a parlare come se fossi vittima di certe situazioni, è uno schema duro a morire, serve molta attenzione per evitarlo e per parlare di me e della mia vita con il linguaggio di colui che sa di essere in una officina, per apprendere.
    Il fatto è che spesso vivo velocemente, e che, più o meno inconsapevolmente percorro il solito solco di parole, linguaggio, comportamento… senza darmi il tempo di sperimentare altro, e di sperimentare il perdere queste vecchie modalità che mi danno sicurezza e che sono automatiche, ma che sento sempre più vuote, improprie non veritiere. (ops…sto andando fuori tema…!)

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  4. Anche approcciarsi loro con tutta la presenza di cui siamo capaci, trovo faccia LA differenza. Una delle mie sfide è decisamente in questo rapporto! Grazie.

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