Il cammino dalla protesta e dalla ribellione, alla compassione

Una sorella nel cammino scrive: E poi ti sale una rabbia spaventosa, inutile, nociva, gli altri da noi non vogliono rabbia, vogliono sorrisi e assertività.
E sale il mostro, un mostro rosso che rivendica diritti, peraltro tutti giusti.
Ma perché non taci? Fai buon viso a cattivo gioco. Ti conviene. E invece no, lui esce come una vampata di un drago, un lanciafiamme. Rivendica giustizia, denuncia, dice.
Perché non taci? Guarda, osserva la miseria dell’uomo e non ti curare.
Roberto chi è quella voce così violenta, che in qualche modo mi scuote ma anche mi protegge? Come un padre che difende la bambina generosa che si dà completamente per ideali alti, forse infantili..
Perché non rido e mi incazzo? E se volessi ridere lo potrei fare, sono capace di prendere quella distanza, ma in qualche modo mi parrebbe una rinuncia a giocare questo buffo gioco che la vita è.
La protesta nasce sempre da una non comprensione e da una necessità di protagonismo identitario.
Questo ho compreso, questo sperimento, di questo posso parlare. Mi si obbietterà che anche Cristo si è arrabbiato e ha rovesciato i banchi dei mercanti. Può darsi che sia accaduto, può darsi che la rappresentazione fosse necessaria per l’evoluzione dei presenti, può darsi che il Cristo provasse autentica protesta.
Non so, non sposta niente nella mia comprensione e non vado cercando conferme al compreso.
Ci sono comprensioni che palesemente sono incomplete, altre che vengono avvertite come incontrovertibili, questa è così.
Se guardo alla mia vita, per decenni ho reagito come la sorella, ribellandomi, protestando, alternando accettazione e ribellione.
Negli ultimi anni, la protesta e la ribellione hanno lasciato il passo alla compassione: spesso, quasi sempre. Ogni tanto l’asino cade, vede il suo cadere, lo soffre, si ripromette di fare meglio alla prossima occasione.
La spinta ribellistica è venuta meno quando è maturata la comprensione che la realtà interiore mia, e quella attorno a me, sono quello che possono essere e dunque, nella loro relatività presente, perfette.
Non intravedo nulla di sbagliato in me e nel mondo: vedo i limiti di comprensione e dunque la realtà relativa che essi possono generare.
La perfezione che vedo nella realtà è, quindi, relativa al sentire che l’ha generata: ciò che è perfetto oggi relativamente ad un dato sentire, sarà perfetto domani in un altro modo connesso ad un altro sentire.
Solo l’Assoluto gode della perfezione assoluta: tutta la manifestazione si accontenta della perfezione relativa del momento presente.
Se la nostra identificazione con il divenire si attenua, scopriamo che possiamo risiedere in quel che siamo oggi, in quello che gli altri sono oggi, con una profonda pace interiore.

Perché non rido e mi incazzo? E se volessi ridere lo potrei fare, sono capace di prendere quella distanza, ma in qualche modo mi parrebbe una rinuncia a giocare questo buffo gioco che la vita è.
Non ridi e ti incazzi perché sei identificata e hai bisogno di esserci come identità, di vivere e giocarti quella scena perché vivendola ne potrai trarre insegnamento.
Quale? Che quella reazione è inutile, un residuo del passato, un vecchio arnese della pretesa d’esserci e di sapere cosa è giusto, e parla di una smania identitaria non ancora morta, di un residuo che ora sfuma, ora si impone, un relitto che vaga tra l’esserci e lo scomparire.
Man mano che sono andato comprendendo che la realtà è quella che è e a me non spetta cambiarla, ma accoglierla e rispettarla, la protesta ha iniziato a venire meno: si è attenuata pian piano, con una lenta progressione e alla fine non ne rimane che una labile traccia nelle meccaniche caratteriali e temperamentali.
So che l’espressione “a me non spetta cambiarla” ti stride, sorella cara, e non solo a te, perché viene letta come una passività, uno stare fermi quando tutto ci chiede di essere diversi e di indurre gli altri a cambiare.
Non di passività parlo, ma non c’è cambiamento possibile che possa nascere dalla protesta: prima si accoglie, poi si cambia, e questo vale sia a livello personale che sociale.
Si diviene consapevoli di quel che si è come singoli e come popolo, lo si conosce, lo si comprende, lo si copre con il velo della compassione e infine il cambiamento diviene possibile.
Altrimenti si fanno i grandi propositi, le grandi rivoluzioni e alla prima difficoltà l’asino ci assorda e il vecchio torna perché mai integrato e compreso.
L’integrazione del limite è centrale, ripeto: se ne diviene consapevoli, lo si conosce, si comprende che c’è a causa di un deficit nel sentire.
Se ho un limite nel sentire non posso colpevolizzarmi, posso solo affidarmi all’esperienza e alla volontà di andare oltre, di ampliare quel sentire che avverto come soffocante la mia natura che bussa per compiersi diversamente e più compiutamente.
Per farmi comprendere meglio, farò un esempio: anni fa, durante un intensivo, sono stato duro con una persona arrivata in ritardo.
C’era in me una prevenzione rispetto a quella persona, dovuta al suo costume di arrivare avvertendo all’ultimo minuto e, in genere, tardi.
Ho reagito sulla base di un pre-giudizio, ma non è questo che mi ha fatto poi riflettere molto a lungo sulla mia reazione: avevo diritto io di reagire a quel modo?
In quanto insegnante la mia reazione aveva un valore pedagogico, ma a me non è bastato, sentivo che non avevo espresso quello che avrei dovuto, sentivo di aver abilitato una reazione che non corrispondeva al mio sentire in evoluzione, in formazione.
Quindi il fatto cadeva in un’area del sentire dove la situazione non era definita, qualcosa andavo comprendendo e quella reazione era stata possibile proprio perché la comprensione non era definita.
In virtù di quel lungo periodo di riflessione e di macerazione su quel fatto, la comprensione è evoluta ed oggi non potrei ripetere un comportamento simile, svilupperei la necessaria azione pedagogica diversamente.
Ho fatto male allora, dunque? Non credo. Fa male la nostra sorella quando non trattiene certi moti della mente/identità? Non credo.
Se si trattiene non impara, non vede il film dell’accadere di sé e non ne riceve un’impressione negativa, un rifiuto, un rigetto necessari a porre le basi del cambiamento.
“Mi parrebbe una rinuncia a giocare questo buffo gioco che la vita è”, non solo, non svilupperebbe la giusta consapevolezza che si dischiude solo mentre un fatto accade, non mentre lo si sente lievitare nel proprio intimo; non proverebbe il sacrosanto e bruciante rifiuto di sé; non dovrebbe misurarsi con lo spiegarsi quel limite e con il doverlo integrare; non conoscerebbe la compassione che infine sorge.
Se la nostra sorella, ed io a suo tempo, non avessimo osato essere quello che eravamo nel limite del nostro compreso, non avremmo avviato il processo del cambiamento che è avvenuto perché l’abbiamo attivato accettando di sbagliare, o più semplicemente di mostrare senza pudore il limite del nostro sentire.
Ancora due parole sul rifiuto di sé, concetto in apparente contraddizione con l’accettazione del proprio limite nel sentire e nel comportamento.
Il rifiuto di sé, di certe azioni o reazioni, sorge quando una comprensione è già avviata e dunque nella coscienza è già presente una matrice che indica la via, che testimonia quello che sarebbe il modo coerente con il sentire acquisito: ci possiamo vedere, e possiamo avvertire un disagio proprio perché quella comprensione è già testimone attiva e, alla luce di ciò che è già abbozzato, viviamo il rifiuto di una certa manifestazione.
Questo è un passaggio strettamente correlato con il successivo, con l’accettazione e l’integrazione: ci risulta evidente che il cantiere è aperto, che i lavori sono in corso, scorrono davanti ai nostri occhi l’azione/reazione, il dolore per essa, la consapevolezza del limite nel sentire, il perdono, il far pace ripromettendosi di far meglio, l’andare avanti accusando il colpo e caricandoselo in groppa.
Quello che ci attende è chiaro: domani non reagiremo come oggi, perché il sentire matura e si amplia e ciò che oggi ci siamo permessi, domani lo eviteremo con cura.
“Ciò che oggi ci siamo permessi”, comprendi sorella? Quei comportamenti accadono perché tu li abiliti, e lo fai per un limite di comprensione.
Domani, con una comprensione più vasta, non li abiliterai più, fatte salve, sempre, le prerogative meccaniche del tuo carattere.


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10 commenti su “Il cammino dalla protesta e dalla ribellione, alla compassione”

  1. L’argomento mi tocca. Per anni ho represso l’espressione della rabbia, fino a negarne l’esistenza, azione pericolosa per le somatizzazioni che ne possono derivare. Solo dopo essermi autorizzata a riconoscerla e ad esprimerla, ho potuto vedere il limite di comprensione che la sottendeva e pacificarmi nella misura a me consentita. L’accettazione di quel limite e la sua integrazione sono stati fondamentali per acquietare quel ribollire. Sicuramente il processo non è completo, ma quello che più conta per me oggi è la consapevolezza dell’importanza di autorizzarsi a vivere e mostrare il proprio limite, senza giudicarsi e senza timore di essere giudicati.

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  2. L’apprendimento, dunque, avviene attraverso l’osservazione, del proprio limite, del proprio agire, delle proprie dinamiche. A volte l’osservazione ha bisogno di tempi lunghi per essere elaborata, altre volte mi accorgo che nel mentre accade la scena ne intravedo anche la spinta identitaria che vi sottende. Quando sposto l’attenzione da me al processo che sta avvenendo, i sentimenti che caratterizzano la scena perdono intensità e lasciano spazio ad un orizzonte più vasto. Collocarsi non più al centro della scena, ma esserne gli osservatori, relativizza il tutto, lasciando spazio a comprensioni più profonde.

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  3. Come Alberta c’ero in quell’occasione.
    Direi che c’era un terzo elemento in quella rappresentazione oltre alla protesta personale di Roberto per quell’ennesima forma di approssimazione, oltre alla funzione pedagogica nei confronti di questa persona e di tutti noi presenti.
    Il terzo elemento che io ho sentito è stato un proteggere attraverso quella rappresentazione tutti noi che stavamo subendo la confusione che aveva portato, mentre noi eravamo a fatica entrati in profondità nel processo dell’Intensivo.
    Allora io non mi sarei autorizzato a dire ‘ma insomma che modo è questo’ perché ritenevo che fosse compito di Roberto dire qualcosa e fortunatamente l’ha detta. Oggi forse mi autorizzerei, rischiando magari di essere inopportuno in un ruolo che non mi spetta, ma la non grazia di quell’ingresso me la ricordo bene.

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  4. So di cosa parla la sorella, ma so anche che ad un certo punto ci stanchiamo di protestare, a poco a poco la rabbia dirada lasciando spazio all’accettazione del nostrto limite e al limite dell’altro.

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  5. Molto utile questa riflessione. La ribellione l’ho sperimentata e la sperimento ancora qualche volta, anche se circoscritta ad alcune situazioni precise , che conosco bene e che potrei evitare di alimentare. Segno che la comprensione non e’ poi cosi’ lontana. Grazie Roberto per aver chiarito l’episodio della “tua” rabbia ad un intensivo , a cui ero presente e che mi aveva un po’ disorientata

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