La creatività come processo che conduce all’unità spirituale

Dice Marco, commentando il post Il superamento della nozione di straordinario e la realtà dell’ordinarioVisto che, credo, anche il libero fluire delle persone può essere considerato un atto creativo, ne approfitto per porre una domanda che mi è rimasta sospesa all’intensivo. Potresti delineare l’anello di congiunzione tra creatività e spiritualità? Certamente nell’atto creativo la mente è semplice strumento, o è del tutto assente, e questo già credo comporti una sintonizzazione con piani più alti…
Con il termine creatività definisco:

  • la capacità di reagire in modi non standard a degli input esterni attivando i sensi e le potenzialità dei vari corpi;
  • la capacità di ascolto di ciò che sorge sui vari piani e corpi dell’interiore dando sviluppo operativo agli impulsi ricevuti;
  • la capacità di ricevere un impulso su di un piano utilizzandolo per realizzare una condizione d’esperienza e d’esistenza più vasta.

Qui vorrei trattare solo del terzo punto: la capacità di ricevere un impulso su di un piano utilizzandolo per realizzare una condizione d’esperienza e d’esistenza più vasta.
Marco è un musicista e dunque sa cosa vuol dire mettersi allo strumento, iniziare a suonare una melodia che si conosce a memoria, o che è scritta su uno spartito, e poi trovarsi al confine tra due mondi.

  • Il solo avviarsi del gesto del suonare allenta l’identificazione con i processi mentali ed emotivi, con il fare in generale e attiva nella persona l’esperienza della consapevolezza e delle presenza, ovvero di quel fare nello stare, o, se preferite, del fare che sorge dallo stare, da una sospensione non solo del personale protagonismo e della identificazione conseguente, ma di una circoscritta e definita percezione di sé come soggetto determinante.
    Naturalmente questo vale quando il brano da eseguire è ben conosciuto; quando invece ci si introduce nel suo studio, all’inizio è naturale uno stato di tensione che attiva il soggetto e rallenta il processo che conduce al confine tra i due mondi di cui parlavo.
    In condizioni ottimali, il musicista mentre suona vive una rarefazione di sé ed una chiara apertura all’imponderabile, intendendo con questa espressione l’esperienza del suonare obbedendo alla forma dello spartito e venendo portato, condotto oltre dalla sua sostanza/intenzione. Condotto dove?
  • Nel mentre l’identificazione nel soggetto scema e la presenza avanza, uno stato di coscienza più ampio si afferma.
    Quello stato non è aumentato in virtù dell’avvio del processo del suonare, in quanto è sempre presente nel suonatore: l’affievolirsi della identificazione lo fa emergere in modo chiaro ed inequivocabile, al punto che a volte sembra che tracimi e lo invada.
    La sostanza/intenzione propria della musica in atto, attraverso il suonatore incontra il sentire del suonatore, del compositore e di quanti nel tempo a quella musica hanno fatto riferimento essendo, essa, innanzitutto, aspetto del sentire di coscienza che non appartiene mai ad uno, ma su quello improntato da uno, ha visto aggregarsi innumerevoli sfumature di sentire prossimo e affine provenienti da coloro che, quella musica, l’hanno condivisa nella intenzione e nella comprensione.
    Nelle regioni più elevate ed astratte della mente pongo il confine e il luogo di incontro tra la coscienza che è e testimonia se stessa in merito a quel brano e a ciò che di esso ha compreso, e la disposizione interiore del musicista libera dal velo della identificazione e supportata dalla presenza.

Due mondi dunque si incontrano: quello più vasto è rappresentato dal sentire di coscienza, quello più limitato dalla presenza del suonatore.
L’incontro realizza quello che i due mondi, se separati, non riescono a realizzare: l’unità dell’essere in cui non esiste né il vasto, né il limitato, esistono condizioni e strumenti differenti che, se posti in relazione e mossi da una certa intenzione, vedono scomparire ogni definizione ed ogni delimitazione per affermare semplicemente il ciò che è.
Sorge dunque l’esperienza contemplativa, il ciò che è pervade l’atmosfera e l’ambiente vibratorio: il ciò che è non è un’espressione filosofica, è uno stato d’essere e dunque uno stato vibratorio, una esperienza inequivocabile in chi suona e in chi ascolta.
Nell’esperienza contemplativa comune a tanti artisti – sebbene essi nemmeno si sognano di definirla così e, purtroppo, troppe volte non hanno strumenti per interpretarla adeguatamente – accade ciò che ogni umano cerca in una vita e in tante vite: l’unità di sé.
L’unità tra alto e basso, tra dentro e fuori. Ora, quella unità è possibile perché è stato superato il muro tra limite e non limite, perché nell’esperienza si è affermato ciò che precede quella divisione illusoria: si è imposta la natura del reale, che non è duale, non è fondato sulla separazione e sulla opposizione, ma sull’essere, su ciò che è.
La creatività, soprattutto quando è sperimentata a questi livelli, diviene strumento di unificazione, di superamento del duale, di vita nel sentire: realizza consapevolmente l’unità spirituale dell’essere che ogni persona ed ogni creatura perseguono.
Naturalmente, quando il creativo che ha accesso a questa condizione è ancora invischiato in trame evolutive di varia densità, l’intero processo è incoerente e la persona, pur conoscendo quella condizione unitaria, oscilla perigliosamente ancora nel duale.


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5 commenti su “La creatività come processo che conduce all’unità spirituale”

  1. Alcune musiche sembrano maggiormente smuovere il piano astrale piuttosto che il sentire, non trovi? Evocano esperienze, vissute o sognate, gioie, dolori, sentimenti amorosi che spesso collocherei nel piano emotivo.
    Interessante considerare invece che investono il sentire e questo appare innegabile.
    Se penso ad una canzone di Battisti o di Vasco sicuramente quello che emerge è anche il loro sentire.
    La musica attiva, se suoni uno strumento per te impegnativo, parlo da ex trombettista, chiama in causa vari corpi: il mentale che quando lo spartito è articolato ti fa stare col culo stretto, il corpo fisico perché varie parti del corpo sono impegnate, l’emotivo chiamato in causa dalla musica stessa e forse a tenere insieme tutto quanto potrebbe essere l’esperienza del sentire. Interessante.
    Grazie.

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  2. Spesso grandi artisti compongono realizzano le loro più grandi opere dopo o durante momenti “difficili” e di particolare sofferenza. Un lutto, una lunga depressione, un insuccesso lavorativo. Come se una “rottura” col passato, con il “normale”, con la routine, con il conosciuto, aprisse quella porta.

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