Il custodire sé, l’altro, la vita

Custodire: prendersi cura e proteggere sé, l’altro, la vita senza discriminazione perché la persona che usa quel verbo, se lo usa a ragion veduta, sa quante implicazioni ha e sa anche che non si può custodire sé e ferire l’altro, o la vita: se il custodire è divenuto natura del nostro essere, custodiremo in maniera unitaria senza distinzione tra dentro e fuori perché il custodire non conosce dualità.
Per addentrarmi nell’argomento userò la descrizione del processo intuitivo, o dell’imporsi della coscienza.
L’umano non è altro dalla coscienza che lo genera, ma sperimenta una condizione feriale del suo operare e una più intensa, più marcata.
Quando guidiamo un’auto normalmente non siamo tesi e la nostra relazione con il mezzo è fondata sull’abitudine e sulla consapevolezza che esso risponde ai nostri comandi, è prevedibile e, in parte variabile, lo viviamo anche come una nostra estensione: questo è assimilabile all’esperienza feriale che una coscienza sperimenta con i suoi veicoli.
Se ci addentriamo in una zona di traffico intenso, con molti pedoni e ciclisti e cani al guinzaglio, la nostra attenzione si fa molto alta, la consapevolezza si dilata, i corpi sono tesi e rivolti a cogliere ogni segnale, a prevedere, a provvedere: questa condizione non è assimilabile allo stato proprio del processo intuitivo, ma può dare l’idea.
Quando la coscienza da “conducente feriale” passa ad imprimersi più a fondo nei suoi veicoli, alla consapevolezza affiorano stati ben definiti:
– sorge una presenza definita e vasta;
– s’impone uno stato di neutralità radicale;
– si sperimenta una vicinanza ed una lontananza simultanei rispetto ad ogni accadere;
– il corpo emozionale si placa;
– il corpo mentale tace o è comunque in secondo piano, non rilevante, né disturbante;
– la percezione sensoriale si acuisce.
Come il corpo della coscienza stringe le redini dei suoi veicoli, o, se preferite, si innesta più in profondità in essi, o, più realisticamente, aumenta la frequenza vibratoria dei suoi veicoli attraversandoli con vibrazioni atte a renderli funzionali al processo che va implementando, la consapevolezza ordinaria diviene presenza, consapevolezza particolare, stato di coscienza amplificato e ampliato.
Questo processo prepara ogni situazione in cui una parola deve divenire pregnante, una situazione pervasiva, una azione efficace per dei fini esistenziali.
La persona vive l’onda del sentire ampliarsi, pervadere e invadere ogni anfratto dell’essere: infine si avvia il processo intuitivo vero e proprio ed affiora ciò che in quel presente abbisogna.
Lo stato intuitivo, o dell’imporsi della coscienza, dura un tempo variabile, da pochi minuti a giornate intere, a settimane: come è giunto, poi progressivamente declina e, normalmente, lascia i suoi veicoli in uno stato di grazia e di stress. Di questo ho parlato molte volte.
La persona che vive questo processo conosce molto bene il custodire: nella fasi in cui la coscienza cambia la frequenza vibratoria dei corpi, in quella in cui dà luogo al necessario e in quella del declinare dell’esperienza, è fondamentale che essa sia immersa consapevolmente in quell’aspetto del sentire che definiamo il custodire.
Aspetto del sentire dunque è il custodire: non preoccupazione di una identità, non solerzia, non cura motivata da mille ragioni, è qualcosa di molto diverso e più profondo.
C’è il custodire quando c’è allineamento pieno dei veicoli con il sentire: il custodire è aspetto dell’amore e copre tutto ciò che tocca, tutto quello con cui viene in contatto.
Nell’intimo della persona sorge una cura, una presenza, una prontezza, una apertura senza condizione a quello che viene e si ammanta di una delicatezza e di una leggerezza, di una discrezione, di una timidezza come di un coraggio tali da essere azione e stato totalmente impersonali e avulsi da qualunque considerazione e impronta soggettiva: c’è il custodire, non l’io custodisco.
Il custodire è rivolto a sé, al preservare un equilibrio, uno stato che è sorto nella gratuità, che non ci appartiene, che non desideriamo trattenere ma che non faremo niente per danneggiare o intralciare.
Il custodire è rivolto all’altro che viene benedetto, coperto di benedizione mentre quel processo accade e su di lui si riversa quell’ampiezza di stare e di proteggere, di avere cura e di sospingere, di benedire e di lasciar andare verso ciò che deve accadere, che è necessario a quella persona.
Il custodire è rivolto alla vita: la persona che sperimenta quel processo è la vita, non altro da essa; è canale che riceve e che dona la vita senza sentirsi canale; è vita tra vite, fatto tra fatti, vibrazione tra vibrazioni, stato d’essere tra stati d’essere.
Esiste solo il custodire, non il soggetto che custodisce: non si custodisce sé, né l’altro, né la vita, c’è il custodire e quando si afferma c’è solo quello e la scena non è occupata né da un soggetto, né da un oggetto, né da una relazione: è occupata dall’amore che ora veste il custodire e, l’attimo dopo, il sentire dopo, diviene lasciar andare.
Una sana ecologia interiore è fondata sul custodire, sull’avere cura, sul prendesi cura: vale per il contemplativo attraversato dall’esperienza intuitiva, ma vale anche per tutti, in tutte le situazioni.
Ma, se pensiamo che il custodire sia portare tutto, tutti, sempre sul palmo delle mani, non abbiamo compreso: ora esso è carezza, ora “schiaffo” a seconda che la persona, o noi stessi, abbia bisogno dell’uno o dell’altro: siamo in grado di sviluppare il giusto atteggiamento solo nel momento in cui il sentire ci pervade e la nostra soggettività, con i suoi condizionamenti, è inoffensiva.
Una propensione senza fine alla carezza, parla di una incapacità di discernimento, di una carenza di confine, di una difficoltà nell’autentico servire e di una declinazione edulcorata del proprio egoismo. Una tendenza perdurante allo “schiaffo”, parla della proiezione dei nostri conflitti interiori ed è speculare al comportamento opposto appena descritto.
Custodire se stessi, custodire l’altro, custodire la vita nei modi propri e possibili a ciascuno: ognuno trovi il suo modo adatto al sentire conseguito e alle situazioni della vita, non esiste persona che non debba occuparsi di questa ecologia basilare, che non la debba coltivare con grande consapevolezza e dedizione. OE30.5


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3 commenti su “Il custodire sé, l’altro, la vita”

  1. Forse nel custodire, nel prendersi cura, disinteressato perchè non ricondotto a sé, non solo non c’è soggetto, ma non c’è neanche un tempo. Vediamo le scene svolgersi nel divenire, ma avvertiamo che ciò che ci attraversa è al di fuori del tempo, in un non-tempo si potrebbe dire.

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