I piccoli fatti e il nostro modo di viverli

Dice un amico proponendo un argomento per l’intensivo di giugno: Sarà la vita frenetica, i ritmi assurdi del lavoro, lo stato usurato di alcuni corpi ma spesso quello che cerco è di riposare, recuperare energie, alleggerire. Tutti atteggiamenti che contrastano con quelli virtuosi di un buon ricercatore della via.
In fondo però vorrei poter dire: e chi se ne frega?
1- La fatica e la necessità di riposare e di disconnettere: sapere quando fermarsi.
È fondamentale: siete immersi in impegni e condizionati dagli orari e dallo stress che si accumula, se non sapete quando fermarvi vi immolate al fare e se al fare coatto aggiungete anche quello della via interiore, divenite un grumo di doveri.
Non è mai un problema del cosa e del quanto si fa, ma del come: quando torni da una giornata di lavoro che ti ha stroncato, è difficile sedersi in zazen, tutto si ribella in te.
Fai la doccia? Come? Con quale senso di liberazione e di alleggerimento? Prepari cena? È anche quello un dovere, o è un momento di piacere, di gioco?
Dopocena guardi un film cretino? Ma ti diverti e ridi e sei consapevole delle cazzate che scorrono sullo schermo?
Se si, tutto questo basta: perché? Perché ciò che conta è la conoscenza e la consapevolezza, ovvero il vivere consapevoli facendo cose minime o grandi.
Vivere consapevoli produce comprensione: anche il vivere inconsapevoli produce comprensione, ma per alcuni di noi la seconda via non è praticabile, è troppo tardi.
Dopo una giornata dura, quando torni  a casa non hai voglia di leggere un post: nella tua mente scorre la scena e ti dici che sarebbe bene che la vivessi, ma non hai le forze, o la volontà.
Potenza dell’intenzione! Il determinante è già accaduto nell’intenzione, i corpi non seguono, la volontà non gli attiva, il sistema chiede disconnessione tout court. Amen.
Amen significa così è. Quella resa non è solo una accoglienza di sé, è anche un atto contemplativo se ha all’origine quella intenzione.
Tutto è giocato sul filo della consapevolezza e illuminato dall’interpretazione sottile: colui che torna stanco può essere solo uno che si svacca, o può essere qualcuno che scende in un abbandono radicale, consapevole che non può ancora fare e allora si arrende a sé e alla vita e sta in quel piccolo accadere e minuto vivere.
C’è il grande accadere e il supremo vivere? In realtà non c’è né il piccolo, né il grande, c’è solo quel che accade e, se accade quello, quello può accadere, non altro.
2- La mente dice che un ricercatore dovrebbe fare diversamente, ma la mente non sa niente ed è infarcita di concetti, vede la compassione con lo sguardo del miope senza occhiali.
Come dovrebbe comportarsi un ricercatore secondo la mente? Ottemperando ai suoi doveri spirituali?
Faccio la doccia, preparo la cena, parlo con mia moglie, guardo un film cretino: manca qualcosa a questo per essere vita piena e reale, puro procedere spirituale, contemplazione perfetta?
È una questione di cosa faccio? No, abbiamo detto che è il come che fa la differenza: sul come l’asino cade, l’asino che non è capace di disconnettere, di abbandonare, di arrendersi, di detendersi, di mollare la presa del dovere e di lasciarsi condurre dalla luce di un tramonto di maggio.
Il ricercatore è un’invenzione della mente ed anche i suoi doveri lo sono, le cose che gli competono e che sono per lui appropriate: tutte invenzioni della mente.
La contemplazione non è un’invenzione della mente: si può essere sfatti nel corpo e nella mente e scivolare dolcemente in un atteggiamento contemplativo che tutto avvolge e tutto sostiene. Accade se si è in pace con sé, se non c’è conflitto, se c’è accettazione piena e incondizionata per quello che viene.
Un esempio: le serate dei nostri intensivi di cui il nostro fratello qui in questione è un insostituibile animatore: di norma ridiamo, e beviamo un bicchiere di più, e stiamo in una così informale leggerezza che nulla ci pesa e nulla ci è di dovere, semplicemente stiamo.
Ecco, quelle serate sono così proprio per preparare alla vita, forniscono un esempio, ed anche un metodo: il riso non diviene mai scomposto, l’allegria non sconfina nella licenza, il semplice non è mai banale.
Contemplazione e celebrazione procedono assieme: nell’abbandono a quel che è i nostri gesti, le nostre parole, il nostro riso celebrano la vita e la fraternità realizzata.
La persona conosce il limite da non valicare: lo conosce l’operaio che torna la sera ed è sfinito, lo conosce il meditante che ha avuto tempo e forze per sedersi davanti al muro, entrambi sanno che è sacro non ciò che la mente riconosce come tale, ma ogni fatto che accade e il limite da non valicare è l’oscuramento della consapevolezza di sé, di quel che attimo dopo attimo viene e realizza la Pienezza d’Essere a noi disponibile in quel modo, in quel tempo.
Si può essere consapevoli quando si è sfiniti? Si, di una consapevolezza anch’essa sfinita, ma che comunque attraversa i fatti e i processi.
Non c’è via d’uscita: chi ha occhi per vedere comunque vedrà, per quanto questi possano essere pesanti la sera, e quello che vedrà dovrà essere rispettoso di sé e dell’altro.
Questo vale, questo fa parte del limite da non valicare, questo ci porta pace e ci allontana dal conflitto tra quello che siamo e quello che dovremmo essere secondo le logiche della mente e del mondo.
Poi spetta al nostro fratello/sorella di turno trovare la via di mezzo: si può leggere il sabato; si può fare una passeggiata meditativa la domenica; si può tenere un contatto con i fratelli e le sorelle del cammino la sera, prima di dormire, quando un grazie ci sorge dal cuore. OE24.5


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7 commenti su “I piccoli fatti e il nostro modo di viverli”

  1. Leggo queste righe e mi rincuoro. Forse è tutto molto più semplice di quello che la mia mente mi racconta: non il dovere bensì il lasciar andare, lasciar scorrere.
    Se imparassi davvero a non credere che sia sempre tutto merito/colpa mia potrei vivere con cuore e anima più leggeri.
    Grazie

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  2. Mi rendo conto di vivere una specie di saturazione del fare, con un senso quasi fisico di nausea. La mente s’infrange nei tanti troppi compiti di cui è spesso artefice. Ciò che resta è solo un grande desiderio di abbandono e leggerezza. Eppure se io arrivo a varcare il mio limite, a tirare troppo la corda, è per sfiducia che la vita provvederà comunque ? In altre parole se io sono esausta e non mi concedo al fare, devo sperare che qualcuno preparerà la cena ?

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  3. Anche io spesso vivo questo ‘senso di colpa’ per non riuscire sempre a rispettare quelle regola che mi sono data… mi sembra di rientrare ancora una volta nella sfera del “dovere “che già tanto mi disturba..ma che purtroppo esiste in certi ambiti ,e che mi pare assurdo adottare nel cammino interiore… questo mi crea conflitto …e mi chiedo cosa ci sia di autentico in me …cerco di uscire dalla gabbia mentale che mi sto creando… cerco di andare avanti con i miei limiti. Grazie !

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  4. Un invito a rilassarsi interiormente… anche quando tutto fuori sembra frenesia. La corsa verso il futuro è vissuta prima di tutto nella mente e nell’affanno della paura di non essere all’altezza. Nella consapevolezza di quel che accade, il tempo e lo spazio si dilatano, non si contano i minuti che rimangono prima di fare qualcos’altro, non si pensa al cliente in coda in attesa del proprio turno, ma si presta dedizione a ciò che si sta facendo o alla persona di fronte a sé in quel momento, e ciò che accade in quello scambio è la sola cosa che conta.
    Sì, è così… “Contemplazione e celebrazione procedono assieme: nell’abbandono a quel che è i nostri gesti, le nostre parole, il nostro riso celebrano la vita e la fraternità realizzata” e questo può accadere in ogni momento, in ogni situazione del nostro quotidiano.
    Grazie.

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  5. Molto interessante questo aspetto, non ci avevo mai riflettuto, e ora che lo faccio mi rendo conto che è quello che accade anche a me. L’importanza di portare consapevolezza in ciò che si fa è oramai di arcinota importanza e oggi si gettano semi per vite future. Sapere di poter alleggerire e lasciarsi andare a quel che è, è rincuorante. Grazie ad entrambi.

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