L’illusione di avere molte vie tra le quali scegliere

Giovanni 6,66-69
66 Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
67 Perciò Gesù disse ai dodici: «Non volete andarvene anche voi?» 68 Simon Pietro gli rispose: «Signore, da chi andremmo noi? Tu hai parole di vita eterna; 69 e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Nel Sentiero, come in tutte le vie, c’è gente che viene e gente che va, o, perlomeno, questo è quanto è avvenuto fino a qualche anno fa. Ora non c’è più gente che viene perché abbiamo scelto di procedere con un piccolo resto.
C’è, inevitabilmente, qualcuno che va quando ritiene di essere giunto al capolinea.

Giovanni ci ricorda che ci sono processi che accadono dalla notte dei tempi, ma fa dire a Pietro: “Signore, da chi andremmo noi?
Desidero parlare in questo post delle possibilità, o dell’assenza di possibilità, che si aprono, o si chiudono, ad una persona che ha salde radici in una via.

È chiaro che qui non parlo dei ricercatori che non hanno ancora deciso dove appoggiare il bastone e la ciotola; parlo dei monaci, di coloro che hanno lanciato il cuore nel giardino di Dio.

Dunque non parlo di masse, ma di uno sparuto resto, qualcosa di insignificante per coloro che guardano i numeri.
Cosa significa avere salde radici in una via? Chi ha queste radici?

Chi non è più attento al contesto che lo ospita, agli aspetti mondani della via che percorre assieme ad altri, ma ha imparato a guardare alla sostanza del proprio ancoraggio al Dio-in-sé, alla coerenza della via di riferimento con quell’ancoraggio, con quanto da esso sorge.

La persona radicata non guarda al limite del fratello nel cammino, e nemmeno al limite del maestro, se presente: coglie l’insieme dell’insegnamento e del procedere, sorvola sul dettaglio eventualmente incoerente, e si cura di valorizzare il buono e il vero alimentandolo con ciò che ricava dall’ancoraggio al Dio-in-sé.

La persona che vive illuminata dal fuoco della propria fede, ha un solo obbiettivo: stabilizzare ed alimentare il percorso personale mentre alimenta e stabilizza quello dei propri fratelli e sorelle.
Essere madre e padre di sé stesso e degli altri.
Discernere senza fine lo Spirito che soffia in sé dal vento del racconto identitario; aiutare gli altri nel medesimo discernimento.

Una persona siffatta, un simile monaco, risponde esattamente come Pietro: “Signore, da chi andremmo noi?
Non risponde questo ai fratelli nel cammino, né ad un ipotetico maestro, lo dice a se stesso, con il salmista:

7 Dove andare lontano dal tuo spirito?
Dove fuggire dalla tua presenza?

8 Se salgo in cielo, là tu sei;
se scendo negli inferi, eccoti.

9 Se prendo le ali dell’aurora
per abitare all’estremità del mare,

10 anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.

11 Se dico: «Almeno le tenebre mi avvolgano
e la luce intorno a me sia notte»,

12 nemmeno le tenebre per te sono tenebre
e la notte è luminosa come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.
(Dal salmo 139)

“Dove posso andare io?
Se mi perdo, se smarrisco la Sorgente, allora il mondo/mente/identità mi attende a braccia aperte.
Ma se non mi perdo, se la Sorgente mi disseta, saranno un tuo limite, o una tua caduta a disorientarmi, a farmi rinnegare i passi compiuti assieme a te, e quelli che ancora ci attendono?
Dove potrei andare io?
E non troverei, altrove, gli stessi inciampi, la stessa umanità fragile, mia e tua?
Ecco allora la consapevolezza ultima: “Tu hai parole di vita eterna“, “Tu sei il Santo di Dio”;
io ti ho conosciuto, Tu parli al mio cuore, alla mia mente e alle mie viscere, dove fuggire da Te?
Perché farlo? Per un racconto della mente su questo o su quello?”

Non ho scritto questo post per qualcuno, come sapete non ho interesse a che le persone restino, vadano, ritornino; l’ho scritto perché Giovanni narra di un ritmo epico, dell’epica dell’umano che cerca e si fa distogliere, inevitabilmente, da se stesso nel suo dialogo/incontro con Dio.
È un dialogo attorno ad una chiamata che solo apparentemente concede all’umano la possibilità di scegliere: in realtà, il Senza Tempo non ci lascia scampo.

Vedo il mito del ricercatore che pensa di poter scegliere tra molte vie: vedo anche la maturità del monaco che sa che ha una solo via, quella che lo porta a reiterare senza sosta la relazione con il Dio-in-sé senza farsi distogliere dalle narrazioni delle menti che si insinuano e provano a dividere, a separare focalizzandosi sul dettaglio.

Un monaco può abbandonare la via perché perde la relazione primaria e fondamentale con la Sorgente-in-sé, perché si perde, questo è possibile ed anche comune.
Se è un monaco appartenente ad un cenobio, può abbandonare quel procedere assieme, di qualunque intensità esso sia, per l’insofferenza nei confronti di un fratello, di una sorella, di una certa scelta operata dal cenobio che lo vede dissentire?
Evidentemente può farlo, ma gravi debbono essere i fatti.
A volte, nelle scelte delle persone, i fatti che determinano degli allontanamenti non sono gravi, sono perlopiù dei malintesi o dei malcontenti, dettagli che si assommano a dettagli e creano una frattura interiore.

Ecco, mi interessa quella frattura, la sua genesi facilmente comprensibile, e il modo in cui viene lavorata, che invece è avvolto nel mistero.
Il malcontento che sempre le menti coltivano, in merito praticamente a tutto lo sperimentato, va illuminato con la luce del fuoco interiore, della fede: l’umano limitato e particolare va esposto alla luce-di-Dio, va lavorato, analizzato e trasceso allargando il punto di vista, cambiandone l’angolazione, rendendosi pienamente conto della visuale provata dall’altro, dal fine comune magari perseguito dal cenobio.
Il particolare va discusso, chiarito con gli interessati, non deve divenire macigno che ostacola la relazione.

Il particolare va visto con gli occhi della compassione, e, appoggiando su di essa, abbandonato, e, se non si riesce ad abbandonarlo, lo si ripone in un angolo consapevoli che al centro della nostra esistenza nell’eremo e nel cenobio c’è il rapporto con il Dio-in-sé, non quel piccolo aspetto contingente o quell’altro.


Letture per l’interiore: ogni giorno, una lettura spirituale breve del Cerchio Ifior e del Cerchio Firenze 77, su Whatsapp. 
(Solo lettura, non è possibile commentare) Per iscriversi

Eremo dal silenzio su Twitter

Politica della privacy di questo sito da consultare prima di commentare, o di iscriversi ai feed.


Print Friendly, PDF & Email

22 commenti su “L’illusione di avere molte vie tra le quali scegliere”

  1. “Discernere senza fine lo Spirito che soffia in sé dal vento del racconto identitario; aiutare gli altri nel medesimo discernimento”
    Qui c’è tutto!

    Rispondi
  2. Sorge solo : ” Tu hai parole di vita eterna“, “Tu sei il Santo di Dio”;
    “io ti ho conosciuto, Tu parli al mio cuore, alla mia mente e alle mie viscere, dove fuggire da Te?”. Qui la mente/identità tace.

    Rispondi
  3. Perdersi, aderire all’illusione dell’identità è possibile in ogni momento. Questo credo accadrà fintanto siamo in questa dimensione. Quello che credo non sia più possibile è che questo accada senza che non si insinui il dubbio di quell’adesione. Riconoscere la frammentazione, la separazione e tornare a cercare l’unità, questo credo non possa essere frutto di una scelta, ma di una via obbligata.

    Rispondi
  4. Ora, come non mai, mi sento senza scampo se non rispondo alla vocazione del Dio-in-me; non rimarrebbe che l’identificazione nell’identita’, un Divenire senza soluzione di continuità. La sfida è alta , la mente insinua il dubbio di dolci consolazioni e la paura di lasciare ciò che è noto per intraprendere una strada stretta e sconosciuta. Tornare indietro mi pare che non sia possibile.

    Rispondi
  5. Quando pensi di essere libero dai condizionamenti , almeno quelli più significativi, ti accorgi che le tue scelte altro non sono che il mezzo per la manifestazione della sorgente e come tali non sono sottoposte al libero arbitrio. È così che sorge il senso di piccolezza, di pochezza, di umiltà che ancor di più ci avvicina all’Uno, al sentirsi parte di esso.

    Rispondi
  6. Un velo e poi un altro e poi un altro ancora portano alla fine allo switch in cui quello Stare che era così limpido e presente diventa luogo non più frequentato, diventando consuetudine il cammino identitario che è è quello che usualmente l’umano percorre . Sottile è il confine fra l’Essere e il Divenire proprio perché essi non sono distinti ma fanno parte dell’UNO. Frequentare entrambi è il risultato di costante disciplina e vigilanza . Ma la stanchezza, i condizionamenti , il giudizio che spesso sorge dalle aspettative deluse , frutti del mentale , creano infine una coltre che impedisce di ritrovare il sentiero per la Sorgente . La luce vien tolta dal candeliere per metterla sotto il moggio . Non serve più a chi era in cammino e non serve più ai fratelli .

    Rispondi
  7. “Discernere senza fine lo Spirito che soffia in sé dal vento del racconto identitario” è fondamentale, lo riconosco. A volte l’identità è molto astuta, soprattutto, credo, nelle menti più sofisticate. Diventa quindi difficile discernere, perché la mente sofisticata riesce a giustificare con considerazioni sottili le proprie scelte e nascondere a se stessa i moti identitari che stanno alla base delle proprie scelte. Quali sono i segnali che possono facilitare il discernimento in questo caso?
    Penso sia semplice discernere nel caso di disagi derivanti dal comportamento dei propri fratelli, c’è un attrito derivante da un senso di separazione, c’è il giudizio. Vigilare su ciò che in noi separa, questo può essere sufficiente anche dove la scelta di abbandonare un cenobio dipende, per esempio, da una mutazione di visione su come percorrere la Via?

    Rispondi
    • A Roberta
      Difficile rispondere teoricamente.
      La direzione di una via, se via autentica è, non è mai il frutto del capriccio, o delle scelte solitarie, o di un errore di discernimento di chi guida, è sempre la conseguenza di una consonanza, o dissonanza vibratoria, di sentire e di un conflitto di questo con le identità.
      Una via, soprattutto se piccola, un cenobio composto di poche persone, procede assieme nella direzione che è la risultante dalla comunione dei sentire, più che delle volontà personali.
      La domanda vera credo possa essere: c’è autentica comunione di sentire, tale da evitare il proliferare delle menti che dividono?
      Ed ancora: io personalmente, metto ogni risorsa possibile nel coltivare la Sorgente, dunque nell’alimentare quella comunione di sentire?
      Chi guida, individuo o collettivo, quando persegue una direzione lo fa ascoltando il sentire del cenobio e il canto delle sue identità; se quell’ascolto non è pieno, o è interrotto, spetta ad ogni singolo far sentire la propria nota al fine di ristabilire una armonia.
      Certo, il cenobio può andare in una direzione, e il singolo può dissentire per un periodo, o su alcuni aspetti: quel dissenso deve divenire confronto con chi guida (e con i propri fratelli e sorelle nel cammino) e motivo di revisione personale, ma in genere, se si segue questa procedura, è destinato a rientrare perché il confronto permette di allargare l’orizzonte e di passare da una visione ristretta ad una più ampia.
      Spesso, troppo spesso, accade che chi dissente non si confronta e persegue l’ispirazione della propria mente.
      Questi dissensi in continuazione sono presenti, frutto di valutazioni soggettive, ma normalmente rientrano grazie al confronto e alla revisione personale: quando non rientrano è perché uno di questi due fattori è stato carente.
      Una via, un cenobio autentici, fondano la loro esistenza sull’adesione alla Sorgente: quell’acqua che tutti bevono unisce, e aiuta a fronteggiare le mille fratture introdotte dalle menti: purtroppo le persone perdono la connessione con la Sorgente senza esserne consapevoli e sposano le tesi delle loro identità quasi fossero verità.
      Se ci rifletti, questo è il meccanismo che crea la realtà del divenire: tutto è Uno, ma le identità creano i molti.
      Ecco che l’appello non può che essere: dubitate delle menti e coltivate la connessione con la Sorgente.

      Rispondi
  8. Mi domando se poi uno può anche sottrarsi al cenobio ma restare ancorato alla via.
    Sicuramente un qualche cenobio deve continuare ad averlo per non perdersi.
    Questo resta un passo, una domanda ed un’esperienza per me fondamentali e nitide: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”.
    Anziché il condizionale del verbo andare l’ho interiorizzata col futuro ma il senso è lo stesso.
    Grazie.

    Rispondi
  9. È così. Una chiamata non equivocabile che va oltre l’espressione dell’umano. Tutto si può riassumere in un si che non necessariamente si prende a cuor leggero. In qualche modo si può parlare della caduta delle illusioni rispetto ad un’altra stagione della vita.

    Rispondi
  10. Sottile voce del Silenzio la chiamata a percorrere la Via. Apparentemente fragile ma nitida se tace la mente. “parlerò al tuo cuore” l’esperienza che poi prende corpo

    Rispondi
  11. Come sempre il post è illuminante. Per natura fatico a vedere le problematiche o i limiti dei fratelli nel cammino pertanto il procedere con loro non è mai stato un problema. Per altri versi, invece,non sono immune da identificazioni per cose che la mente considera importanti e ci ricama i suoi film. Tutto allora mi si oscura e ad ancorarmi rimangono le parole del Salmo. Comprendo la risposta di Pietro a Gesù: “Signore da chi andremo?” Da chi andremo se Dio è in noi?

    Rispondi

Lascia un commento