Identificazione, immedesimazione, contemplazione

Le questioni da voi poste.
Paolo
Questo pomeriggio a VDM è stata intavolata una discussione in tema di identità , processi di identificazione e disidentificazione che merita di essere approfondita.


Anna ha raccontato di come, durante un’attività ludica e creativa con i nipoti , avesse raggiunto una condizione di coinvolgimento nel gioco tale da perdere la propria percezione identitaria (lei non c’era più ma era diventata gioco), e da non accorgersi del marito che nel frattempo era entrato in stanza.
Io ho portato l’esempio di ciò che accade quando ci si trova immersi nella visione di un film al punto da dimenticarsi di trovarsi all’interno di un cinema e di accorgersi solo al momento dell’accensione delle luci di quel che ci circonda.
Si può parlare in questi casi di processi di disidentificazione? O dobbiamo riferire questo termine ad altri stati e circostanze ?
Ed il ludopatico come può essere considerato? Soggetto completamente identificato nel suo stato di giocatore e malato, oppure talmente disidentificato al punto di essere completamente assorbito dal gioco, anche se con caratteristiche di creatività e coinvolgimento emotivo diverse da altre attività ludiche, da perdere il contatto con se stesso e la realtà ?

Samuele
Partiamo dall’esperienza di Anna che giocando con le nipotine era talmente “presa” che non ha sentito sopraggiungere il marito.
Passiamo per quella di Roberto DE che sta prendendo lezioni di tiro con l’arco e che sperimenta e tenderà sempre più a diventare tutt’uno con l’arco.
Giungendo a quella di Alberto che nel gioco del calcio percepisce come un flusso automatico che lo fa agire, senza intoppi.
Ma anche l’esperienza di cui il sottoscritto aveva fatto cenno nel lunedì, ovvero l’essere concentrati sul lavoro e non accorgersi spesso del passar del tempo.
Orbene, come rubricare queste esperienze?
In tutte possiamo registrare la “scomparsa del soggetto” e quindi verrebbe da ritenerle, esperienze nell’essere.
In quasi tutte però, escluso lo scoccatore di dardi, si osserva una mancanza di consapevolezza; un essere “presi”, assorbiti da ciò che si fa, da far pensare ad “un alto livello di identificazione” che normalmente consideriamo in antitesi con l’essere.

Marco
Ieri, come anche altre volte, ho suonato i nostri brani o alcune parti di essi in maniera molto libera. Lasciandomi condurre dal brano. Non c’era nessuna paura del giudizio, perché era il brano che si faceva da sé e io ero tutt’uno con lui. In quei momenti è come se ci fosse solo la musica. Di conseguenza la percezione anche delle persone intorno è più rarefatta e credo che se qualcuno per caso che si alzasse, non mi accorgerei.
Per cui capisco bene Anna quando dice che non si è accorta del marito.

Inizierei analizzando l’espressione “perdere la propria percezione identitaria” che ricorre nelle vostre considerazioni.
Come sappiamo, l’identità non esiste, è una percezione, la risultante di un complesso di dati che attraversano il corpo mentale, astrale, fisico e sono il frutto della relazione con un ambiente.
Esistono dunque momenti in cui quella percezione di sé, come identità, viene meno?
Assolutamente sì, basti ricordare quante volte abbiamo percorso chilometri in auto e non sapremmo proprio dire chi ha guidato.
In questo caso non c’è consapevolezza e non c’è presenza: c’è un vuoto.
Nella serie di fotogrammi che compongono il viaggio e il guidare, c’è un buco, alcuni fotogrammi mancano, semplicemente.
Non voglio qui addentrarmi in cosa questo significhi, adesso mi accontento di prendere atto del fatto.

C’è la situazione che voi descrivete, del perdersi in un’esperienza: la scena con i nipoti, il film al cinema.
La domanda è: “chi” perde che cosa? Irrispondibile se non si precisa “chi” possiede qualcosa.
Anna è con i nipoti e si perde: cosa perde?
La consapevolezza di essere parte separata da ciò che viveva.
Quindi, prima, Anna aveva la consapevolezza che lei è qualcosa, i nipoti qualcosa d’altro, e le cose che si fanno con i nipoti sono la relazione, il ponte tra sé e loro.
Anna possedeva, in origine il senso di essere separata dai suoi nipoti: senso di separazione che in seguito perde. Perché?
Anna ha difronte due creature molto piccole, che tutto sono tranne che due individualità definite: di fronte all’indefinito diviene indefinita.
Cosa significa? Che nulla in Anna lavora per attivare barriere e separazioni, distinguo e differenziazioni che sarebbero quanto di più inutile e controproducente: di fronte all’indefinito essere, è ecologicamente sano non avere forma né definizione di sé.
Non essendoci paura, né necessità di affermazione o riconoscimento, la cosa più naturale è entrare nella funzione di gioco: tu sei quel-che-sei, io sono quel-che-sono.
Non sorge dunque l’osservatore-soggetto, colui che deve dimostrare, deve guadagnare, , deve discriminare, deve essere qualcosa: nel libero fluire delle situazioni in cui nulla va dimostrato, c’è solo l’accadere del momento e l’osservatore-soggetto non c’è, o è irrilevante.
L’accadere non è sottoposto ad alcuna particolare auto-attribuzione: c’è immedesimazione, non identificazione.

Altra situazione. Stiamo guardando un film: “dimenticarsi di trovarsi all’interno di un cinema e accorgersi solo al momento dell’accensione delle luci di quel che ci circonda “.
Il film, per la trama, i personaggi, la regia, o per una nostra disposizione personale, produce in noi una immedesimazione: l’osservatore-soggetto che era arrivato con l’intenzione di godersi la serata, si trova estromesso, una saldatura rapida o progressiva tra le sensazioni, le emozioni, gli affetti, i pensieri, il sentire e le scene che scorrono, il loro narrato, la loro sostanza ed intenzione, lo scaraventano fuori dalle scene: meglio, lo spengono.
Con il soggetto su off, la percezione è affettiva, sensoriale, cognitiva, di sentire: è pura ricezione, accoglienza, ascolto, visione, risonanza.
Perché è possibile? Anche qui per la semplice ragione che non c’è paura, non c’è da dimostrare, né da affermare: possiamo solo vivere, davanti abbiamo una finzione, l’apparato interpretativo/rappresentativo, il costume di scena che chiamiamo identità non è necessario non essendoci pericolo di accettazione/rifiuto, non dovendo dimostrare alcunché.
In questa tranquillità e sicurezza di fondo, l’apparato dell'”io-sono” non serve, dunque non c’è. Sarebbe diseconomico, anti-ecologico.

Vi chiedo: in quante altre situazioni non c’è il soggetto-osservatore-censore?
Quante di queste situazioni nemmeno vengono registrate/considerate?
Perché salgono all’evidenza solo le scene caratterizzate dalla divisione, dalla separazione?
Perché è da esse che impariamo. Cosa? Ad andare oltre alla separazione.

Ora: quando parliamo di identificazione?
Quando un fatto viene auto-attribuito ad un soggetto: quel pensiero, quel desiderio, quell’azione sono miei, mi rappresentano, mi esprimono, sono il canale attraverso il quale io mi esprimo, mi definisco, mi affermo e vengo riconosciuto.
Ho paura, debbo dimostrare, anelo un riconoscimento: queste sono le grandi molle, alcune, che attivano il processo che chiamiamo “identità”, “soggetto”, “osservatore”.
Non siamo di fronte ad un dato costitutivo, un corpo, un organo, ma ad un processo, una percezione, una interpretazione, inevitabilmente..

Quando parliamo di immedesimazione?
Nei casi sopra descritti, due tra mille.
Non essendoci nulla da temere né da dimostrare, essendo puro gioco, non vengono attivate nessuna delle difese, non è necessario separarsi, dunque l’identità non serve.

Quando parliamo di contemplazione?
Quando c’è consapevolezza dei fattori e degli agenti in gioco – quindi anche della possibile incombenza del soggetto, delle verosimili paure e poste in gioco, e delle loro implicazioni – e, nonostante questo, un affidarsi radicale disconnette l’apparato di controllo e lascia affluire liberamente il reale.
In una fase avanzata dell’esperienza contemplativa, essa si presenta come una brezza che libera il campo da qualunque interferenza e lascia fluire la sostanza mistica dell’accadere, il senso profondo di ciò-che-è in quel momento senza tempo.
Ma di questo ho parlato in molte altre occasioni..


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2 commenti su “Identificazione, immedesimazione, contemplazione”

  1. Molto chiaro. Il saper spiegare le cose in modo semplice e lineare, esprime la grande interiorizzazione di quei concetti da parte di chi li esprime.
    La difficoltà personale nell’esposizione di concetti mette in evidenza quanto lavoro ci sia da fare!!!

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