Morire giovani, la lezione dell’impermanenza

A colei che, nell’impermanenza, ha visto la vita con gli occhi di M. e che contempla il disegno dell’Architetto
Forse avrete notato che nella home di questo sito è rappresentata l’immagine di un papavero, tra tutti i fiori – assieme al soffione – uno di quelli che non fa mistero della sua inconsistenza, del suo essere effimero, transitorio, impermanente.
Mai l’umano si rappresenterebbe come un papavero, niente più dell’impermanenza lo mette in scacco.
Quando muore una persona giovane, anche nell’umano più distratto, la riflessione si fa più profonda alla ricerca di un senso, di un perché di un avvenimento così doloroso e così, apparentemente, contrario alla natura delle cose e della logica che vorrebbe vedere gli esseri nascere, divenire adulti, invecchiare e solo infine morire.
Invece alcuni di noi sono chiamati prima ad abbandonare la vita, prima che il loro volto abbia conosciuto la ragnatela delle rughe.
Tante volte in queste pagine abbiamo detto che non si può comprendere la morte, se non si comprende la vita: solo sapendo rispondere alla domanda: “Cos’è il vivere?” si ottiene di fare luce sul passaggio esistenziale del morire.
Ma non è di queste domande, e della ricerca di queste risposte, che l’umano si interessa e si nutre: egli è preso dai propri bisogni e quelli persegue; la morte sembra essere un inciampo, un accidente e non la naturale conclusione di un ciclo di vita, breve o lungo che sia stato.
Come sapete, noi affermiamo che l’umano altro non è che la rappresentazione di un principio di coscienza: una coscienza/individualità genera una rappresentazione che l’umano chiama vita e, attraverso le più varie esperienze nel mondo della fisicità, delle emozioni, degli affetti, del pensiero, estrae dati di consapevolezza e di comprensione che ne strutturano e ampliano la natura preparandola per altri compiti.
Quando una coscienza/individualità ha raggiunto il livello di comprensioni necessario ad affrontare altre dimensioni del vivere e del sentire, cessa di generare incarnazione dopo incarnazione e avvia uno sperimentare libero dalla dimensione fisica, emozionale, cognitiva e temporale.
Questo superamento del ciclo delle nascite e delle morti, avviene all’incirca dopo 80/120 incarnazioni spalmate su di un arco temporale di 40/50.000 anni: questo affermano fonti diverse e credibili che dalla dimensione della coscienza accompagnano e informano l’itinerare umano.
Dov’è il campo base di una coscienza/individualità? Nel piano della coscienza.
Mediamente ogni 3/400 anni (del nostro tempo) quella coscienza genera una escursione nel campo della rappresentazione fisica, emozionale e cognitiva e lo fa per condurre a comprensione aspetti dell’esistere, per divenire consapevole di sé, dell’ordine dell’universo, della natura dell’Assoluto, delle relazioni che intercorrono tra gli esseri, della natura di incomprensioni quali l’egoismo, la violenza, l’odio.
Cosa spinge una individualità a spostare la consapevolezza dal campo base posizionato nel piano della coscienza e a focalizzarla transitoriamente – in realtà per un tempo molto fugace se misurato con l’unità di misura di quel piano – sul piano del divenire e del mondo governato dai sensi e dai bisogni?
La necessità di realizzare comprensione, di ampliare il sentire di coscienza posseduto, processo che si realizza solo ed esclusivamente nel fare esperienza e nel divenire consapevoli sperimentando nei tre piani della fisicità, della emotività e della cognitività.
Da cosa è sospinta quella individualità, chi ne governa i processi e i ritmi?
Leggi precise, una delle quali è la legge di causa ed effetto, o legge del Karma: fino a quando una comprensione non è maturata, sono necessarie esperienze su esperienze che la conducano a compimento, ovvero ad acquisire l’insieme di quei dati che permettano ad una incomprensione di divenire comprensione, ad un egoismo di divenire amore.
Quelle leggi da cosa sono originate? Dal loro principio ispiratore, l’Assoluto. Le leggi, le individualità, le vite altro non sono che emanazione degli innumerevoli stati di coscienza che costituiscono il sentire assoluto, la coscienza assoluta.
Dunque tutto ciò che vive altro non è che sentire di coscienza in atto, frammento del sentire assoluto che testimonia se stesso.
Così è per tutti gli esseri, dal minerale al sovra-umano.
Perché una vita, una incarnazione, finisce a trent’anni e una ad ottanta? Perché una a trent’anni ha esaurito i compiti esistenziali di quella incarnazione, mentre l’altra abbisogna di ottant’anni per esaurirli.
In questa logica non esiste il giusto e l’ingiusto, esistono le finalità di una coscienza che accende una incarnazione quando vuole, e la spegne quando non le è più funzionale perché ha esaurito il suo compito.
Il morire è quel ritrarsi di una coscienza dal suo veicolo fisico, è il sancire la fine dell’escursione che dal campo base l’ha vista sperimentare per i sentieri del tempo, nei meandri dei bisogni: finito lo scopo incarnativo, termina la rappresentazione. Alcuni film sono dei lungometraggi, altri dei cortometraggi.
Nel mentre una coscienza sperimenta incarnata nei veicoli che le danno forma e la conducono a rappresentazione, essa genera come automatismo, proprio in virtù della relazione con quei veicoli e con il mondo nel quale si muove, una immagine parziale e limitata di sé, del proprio esistere e dei propri compiti esistenziali: l’identità, od Io.
L’identità, l’auto-percezione e auto-interpretazione di sé, è lo specchio del non compreso, e di parte del compreso, che quella coscienza si trova a sperimentare.
Quindi l’identità è una risultante molto plastica, molto dinamica che in tempo reale riflette ciò che la coscienza proietta attraverso i suoi veicoli, mossa da una spinta all’esperienza e alla comprensione, e ciò che i veicoli, l’immagine di sé che questi generano sotto la pressione della coscienza, sono in grado di attuare: ciò che è attuato, è ciò che è stato possibile attuare sulla base dell’equilibrio tra comprensioni e non comprensioni conseguite.
Quindi l’identità specchia il compito esistenziale di una coscienza: l’identità, l’auto-interpretazione di sé e l’immagine conseguente che viene proiettata, è la rappresentazione efficace dei compiti esistenziali di una coscienza in una incarnazione; non lo specchio di un intero sentire, ma di un sentire limitato e circoscritto dal momento che una incarnazione mai veicola l’intero sentire, l’insieme delle comprensioni, ma solo una frazione di queste, solo alcune comprensioni conseguite e molte comprensioni da conseguire.
Nell’identità si annida la necessità della permanenza, della durevolezza, della stabilità, della certezza, del controllo: nell’identità, con la sua limitata consapevolezza, con il suo limite di visione, con il suo essere riflesso di un sentire, si sedimenta la necessità di garantire basi durevoli all’esperienza esistenziale in corso e si articola il timore della scomparsa, dell’ignoto, dell’imponderabile, del non controllo.
Stati ignoti alla coscienza, si articolano e prendono forma nell’identità nel tentativo di acquisire forma, sostanza, consistenza, permanenza e riproducibilità delle esperienze: là dove l’origine conosce il disegno dell’incarnazione/rappresentazione, il suo frutto, l’identità, ne ignora il respiro e dunque, nel limitato orizzonte che possiede, tende a garantirsi ciò che le sembra il necessario.
Morire nella dimensione fisica è veder scomparire in un attimo l’impianto identitario, ciò che aveva costruito come adesione e come interpretazione: è ritornare dall’escursione al campo base.
Muore l’identità, non la coscienza. Ha fine la rappresentazione di un processo perché la coscienza ritrae i suoi allacciamenti dal veicolo fisico, ma non muore la vita emozionale, né quella cognitiva di quella individualità perché non muoiono i corpi che quelle sfere generano e governano: ha fine l’immagine limitata e transitoria di sé che riverberava come un ologramma, sotto la proiezione del sentire e il riflesso nei suoi tre veicoli.
Venendo a mancare il veicolo più denso, non c’è più ologramma: fine della proiezione, fine dell’identità, fine del divenire e del soffrire.
Inizio della vita oltre il divenire, vita che è sempre stata, mai è cessata ma, per un breve, brevissimo lasso di tempo, ha vissuto una focalizzazione, un sogno se volete, in una dimensione più densa al fine di acquisire dati.
Il morire è il riposizionare la consapevolezza sul piano primario d’esistere, quello del sentire, piano da cui sorgono tutti i processi: l’impermanenza è un’esperienza che sorge nel sentire vita dopo vita, esperienza dopo esperienza; man mano che il sentire si costituisce, diviene chiaro cosa è sostanza e cosa forma e rappresentazione impermanente.
Un sentire maturo legge la vita nel divenire alla luce dell’impermanenza: non è un qualcosa di cui ci si ricorda quando si viene colpiti da un lutto, o da un abbandono, la coscienza dell’impermanenza è una costante che ci attraversa nel tempo e ad ogni respiro quando siamo oramai focalizzati sull’essenziale.
Ogni fatto impermanente ed effimero, è solo un simbolo e a questo dobbiamo imparare a guardare: il simbolo parla di un sentire e del suo diverso grado di maturità.
Il simbolo cambia, è mutevole e, appunto, impermanente: scompare per lasciare il posto a simboli più efficaci nel momento presente.
Vivere è una processione di simboli: morire è la fine di quella processione e l’avvio di un processo di una natura molto diversa.
Vivere con la leggerezza dell’impermanenza è una meta per l’umano, a volte possibile, altre impalpabile come un sogno: eppure non c’è fatto che a quella leggerezza non ci voglia condurre.


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14 commenti su “Morire giovani, la lezione dell’impermanenza”

  1. Credo che M, durante la sua malattia, per quel poco che ho letto dei suoi post, abbia proprio capito il valore dell’impermanenza e quello di vivere pienamente la vita così come si presenta attimo dopo attimo. Sì Pietro, penso che le persone che ci sono vicine, mentre si preparano al trapasso e nel momento in cui esso avviene, ci facciano il dono di capire che questo passaggio è nell’ordine delle cose e ci insegnano come affrontarlo.

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  2. Grazie . Non abbiamo altra strada che riconoscere questo volo della nostra dimensione di coscienza e questa manifestazione identitaria che è un soffio e come tale dura poco , o quanto le è dato di durare.

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  3. Grazie
    Potrebbe essere che la morte cioè l’abbandono del corpo fisico da parte di una coscienza sia l’ultimo “regalo” di quella coscienza per generare comprensioni? O forse è solo un mio modo di vedere e cercare di dare un significato alla morte?

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    • È chiaro, Pietro, che una morte, soprattutto se di una persona giovane, provoca sommovimenti interiori in tutti coloro che la vivono da vicino.
      È quindi naturale che possa provocare anche comprensioni, o embrioni di esse.
      Essendo tutti noi connessi con tutti, impariamo da ogni fatto, tanto più se quel fatto è drammatico e ci interpella nel profondo..

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  4. Non c’e stata nessuna reazione destabilizzante a questa notizia nonostante la stretta conoscenza e la quasi stessa eta’ di una mia figlia, solo grande rispetto…..ma devo fare attenzione nell’esternare questo concetto che non e’ da molti compreso e che puo’ dare l’impressione di insensibilita’. Solo con le mie figlie ne ho parlato in questi termini perche’ mi conoscono ….
    Grazie per questo approfondimento

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  5. Alcune espressioni mi rimangono astratte ma nella sostanza naturalmente ho capito, anche perché tanto si è già detto in proposito. Ma non conta. Leggere dell impermanenza non è mai di troppo…

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  6. Leggo e sento che è verità quel che scrivi. Mi chiedo se avessi avuto un’alternativa al vivere il mio lutto così da come lo vivo ora, dopo cioè che ho conosciuto il paradigma del Sentiero, o se sia stata la Vita, che mi ha messo a disposizione questa conoscenza, per cui di fatto non ho scelto, ma semplicemente ho seguito il flusso. Prima mi capitava spesso di affermare: c’è sempre una possibilità di scelta, possiamo decidere se un’esperienza può tramutarsi in opportunità di conoscenza o in un sordo irrigidimento. Ma sarà davvero così? Ora non saprei. Spero solo che i genitori di M., suo marito e tutti coloro che le vogliono bene possano trovare senso e consolazione, ma di certo la Vita gli avrà dotati degli strumenti a loro necessari.

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