Afferma Maria nel commento al post Solo il giudizio ci separa dall’Uno: “[…] pura tossicità la logica del divenire, dell’imparare, del perfezionarsi.
Puro veleno che, immersi nella sequenzialità della mente e del divenire, non possiamo non bere fino a quando ci diviene evidente che esso ci ottenebra l’esperienza di quel che è”. Queste parole mi risultano di difficile comprensione, sarà che mi sento molto dentro la logica del divenire, avverto una logica di giudizio nel descrivere una parte ineludibile della nostra realtà. Perché deve essere veleno se è necessario passare di lì per giungere a superarlo? Sento che se non si sciolgono prima dei nodi identitari nel piano del divenire si rischia di rimanerne invischiati e parlare di Essere rimane solo una bella teoria.”
Questo ci dice che non esiste una solo realtà, ma una molteplicità di realtà: esiste la realtà della persona che è identificata con il divenire e non può non esserlo, ed esiste la realtà della persona che quella identificazione vive come tossicità.
Tra le due ci stanno tutti i gradi intermedi possibili e ciascuno trova la collocazione che sente propria.
Il veleno non c’è per la persona che vive la necessità del passo dopo passo, dell’imparare sperimentando, dell’evolversi attraverso le esperienze: per quella persona la realtà che vive è una benedizione, non un veleno.
Chi quel procedere ha abbandonato, guarda alla vita con altri occhi e della vita vede la trama illusoria: l’identificato e il non identificato vedono la stessa realtà ma non la leggono allo stesso modo.
Agli occhi del non identificato la vita non è più un’officina, è l’oggetto di una contemplazione.
Se l’identificato indossa la tuta e si sporca di grasso ben sapendo che quella è la sua vita, il non identificato attraversa con passo diverso ciò che gli rimane da apprendere: non riesce ad indossare la tuta e l’umore del grasso che lo fa precipitare nel giudizio gli produce un sussulto, la tossicità di cui parlo.
Il non identificato non è perfetto, ma avverte come lontano, alterato ed illusorio il mondo della identificazione e, nel momento in cui deve farci i conti perché qualcosa deve essere condotto a compimento nella comprensione, vive una duplice condizione:
– la gratitudine per l’opportunità che gli si offre;
– il disagio per il giudizio/identificazione su di sé che è affiorato.
Prova, Maria, a risiedere stabilmente in una certa condizione d’Essere che è per te ordinarietà e dunque non ha quella connotazione particolare che ha per i neofiti e quindi non ha nemmeno quella portata eclatante e dirompente propria del nuovo, vedi come la mente e l’emozione sono attraversati da tutto il reale, in tutte le sue forme e vedi come questo fluisce liberamente, senza impigliarsi.
Poi valuta come questo flusso può essere considerato non come qualcosa che c’è e basta, ma come qualcosa in cui, se vi precipitassi identificandoti, perderesti quello stare ampio e non condizionato: quel divenire non ti apparirebbe come una tossicità?
Il mondo, visto dal sentire unitario, non è ignoranza e cecità?
Non c’è un giudizio nell’affermare questo, è una constatazione d’esperienza: nella condizione di non condizionamento il flusso dell’ordinario non è un problema; il precipitarvi, l’impigliarvisi è vissuto come una tossicità, una intossicazione del reale vissuto fino a quel momento.
È un dramma questo? No, evidentemente, è qualcosa che accade ineluttabilmente fino a quando c’è un briciolo di separazione e, ricordo, non c’è umano per quanto evoluto che non marchi una certa separazione. Tranne che nelle favole di certi illuminati.
Come dicevo sopra, esistono veramente molti mondi e questa esistenza poliforme diviene evidente quando non si appartiene più ad alcuno di essi perché si è divenuti fino in fondo stranieri alla condizione umana incarnata: questo non significa che si è finito di imparare, significa che si risiede in una data condizione d’Essere dove l’imparare è naturale e si è molto guardinghi sulla reale natura dei pensieri, delle emozioni, di certe intenzioni non chiare.
Il non identificato non è un beota, è un figlio dei processi: in buona parte gli ha superati, li conosce, li contempla, non li teme, ma sa di che materia sono fatti e sa quale è la distanza che deve tenere da essi. Da certi di essi.
Fatto salvo che, quando la necessità evolutiva bussa, ci cade dentro come gli altri.
Il post in questione, Solo il giudizio ci separa dall’Uno, parla di un punto di vista, di una sensibilità e parla a quanti sono affaccendati con la questione ultima dell’unità: a tutti indica la via, la direzione, l’orizzonte e lo si può avvertire come vicino o lontano, ma di certo quello domani accadrà a chi si misurerà con il superamento del giudizio e con la scomparsa di sé.
Oggi possiamo sentire questi temi lontani e forse astratti, è naturale: nel Sentiero cerchiamo di tenere insieme l’Essere con il divenire e se chi scrive dovesse parlare solo del divenire, tradirebbe se stesso e il suo scrivere non avrebbe la verità che porta la conoscenza di ciò che c’è oltre l’apparire dei fatti.
Chi è nel divenire ha gli strumenti per affrontarlo; chi si affaccia sull’Essere ha una prefigurazione di ciò che lo attende: certo, non è proprio facile tenere assieme ottiche così distanti dove una ha bisogno di dire “è vero” e l’altra afferma che “è solo finzione ed anche tossicità”.
Noi cerchiamo di tenere assieme questi due livelli di realtà, a voi spetta saper discernere quando parla l’educatore e quando il mistico.
Se c’è un eccesso di identificazione non si riesce a cogliere il portato di un approccio totalmente altro, occorre diminuire quella aderenza al divenire e saper tenere assieme sapientemente l’attività di investigazione di sé e quella di contemplazione del reale.
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È la sapienza dell’uomo equilibrato saper dare giusto spazio ora all’essere e ora al divenire: solo ognuno di noi conosce la giusta alternanza!
Grazie
Grazie
Grazie!
Grazie Roberto.
Rumino anch’io
Se qualcuno pensasse che la via dell’Essere sia incompatibile con la vita “attiva” senta cosa scrisse Pierre Beghin, il più forte himalaysta francese di tutti i tempi, dopo un’impresa in solitaria impressionante:”Per riuscire in Himalaya ci vuole veramente una motivazione enorme. Io credo di essere arrivato in cima al Makalu perché avevo superato il punto di non ritorno senza pormi la questione. Io vivevo l’attimo, senza pensare ad altro, e in ogni caso avevo veramente l’impressione di fare ciò che dovevo fare. Il passato e il futuro non esistevano più”
Ps.: superato il punto di non ritorno, se non si arriva in vetta per discendere su un’altra via, si muore.
“….occorre diminuire quella aderenza al divenire e saper tenere assieme sapientemente l’attività di investigazione di sé e quella di contemplazione del reale.” Questa sintesi mi chiarifica, grazie
Grazie
Grazie!
Rumino con gratitudine