La solitudine esistenziale: l’essere straniero, disadattato, triste

Scrive una sorella nel cammino: In questi giorni percepisco un gran senso di solitudine. Fatico a relazionarmi col prossimo, non trovo argomenti, non sento vicinanza. Ad esempio, ho partecipato con piacere alle cene di fine anno scolastico […], ma, osservandomi in mezzo ad altre persone, mi sono sentita una disadattata. In quel palcoscenico sento il bisogno di fare un passo indietro, cosa vuoi fare altrimenti? […] Non c’è giudizio e non c’è identità che vuole riconoscimento. C’è solitudine, un’infinita solitudine interiore. Sarà una forma di deserto? Poco importa, oggi: in tutta onestà, sapere che altri nel cammino vivono la stessa condizione, non è di conforto.
Oggi è più rassicurante il senso di fiducia che provo nel fluire della vita e nel sentirmi umilmente parte di un qualcosa di grande, di ampio.
C’è comunque una nota di tristezza…
Lo stato di una solitudine ontologica viene molto bene descritto da questa nostra sorella: è una solitudine di fondo, esistenziale, che appartiene ad ogni essere umano e che da alcuni è sperimentata ciclicamente.
Un primo dato sul quale riflettere: quella esperienza della solitudine è innanzitutto figlia di un contatto con sé.
Quando quel contatto con sé non è presente ad un certo livello di profondità, si sperimenta la solitudine dell’ego, non quel baratro esistenziale.
La solitudine dell’ego è legata al lamento, alla lagnanza.
La solitudine esistenziale non porta lamento, è immersione in uno stato senza che la mente possa ricamarlo.
Un secondo dato: l’esperienza di quella solitudine è la risultante di una condizione di separazione relativa.
L’immersione della coscienza nel divenire, i limiti imposti dai corpi transitori generano quello stato di sentire/esperire; quindi è uno stato che coinvolge l’insieme coscienza/identità e che non è ascrivibile alla sola coscienza, o alla sola identità.
La coscienza in sé non vive l’esperienza della solitudine, ma è consapevole della separazione dall’Assoluto che viene registrata ad un certo livello del sentire relativo che illusoriamente la costituisce.
L’identità vive la solitudine egoica: quella degli affetti e del riconoscimento.
Insieme generano e rendono percepibile l’esperienza della solitudine esistenziale, od ontologica.
C’è solitudine, un’infinita solitudine interiore: non è colmabile, né compensabile. È spesso accompagnata dall’angoscia, profonda, apparentemente immotivata.
Un terzo dato: la sperimentazione di quella solitudine ci rende stranieri.
Stranieri a noi stessi, stranieri all’altro e al mondo. Lo straniero, questo straniero, non è un’estraneo, è qualcuno distante, non integrato. Forse non integrabile.
Straniero e straniato. Disadattato come dice la nostra sorella. Tra noi, nel Sentiero, diciamo che siamo dei disadattati consapevoli: questo ci rende la via.
Sento il bisogno di fare un passo indietro, cosa vuoi fare altrimenti? Poco o niente da dire; niente da dimostrare.
Nella solitudine, nell’immersione in questa solitudine finché l’esperienza dura, non c’è brama dell’identità: si partecipa al vivere perché è nelle cose farlo, ma l’essere stranieri non viene mai meno.
Sarà una forma di deserto? Si e no. Il deserto è esperienza dell’identità che perde i suoi ancoraggi, le sue fondamenta, l’illusione dell’appartenenza e del gioco dei bisogni e delle rappresentazioni.
La solitudine esistenziale coinvolge un’identità in profonda ed evidente ristrutturazione, ma è esperienza più profonda originata in aspetti del sentire relativo.
Sapere che altri nel cammino vivono la stessa condizione, non è di conforto: è naturale. Eppure la sorella ha scritto, qualcosa l’ha mossa ad interloquire pur non avendone necessità: è il segno che sebbene l’immersione nell’esperienza della solitudine sia profonda, nel suo interiore si è disegnata una rete di connessioni che opera come riferimento inconscio, ovvero appartenente al sentire.
Nel sentire è inscritto l’altro, il fratello nel cammino: nel sentire c’è una connessione vibratoria che non si perde nemmeno quando l’onda dell’angoscia dell’essere soli sale.
Nel sentire è vivida la consapevolezza, frutto delle comprensioni, che tutti si procede assieme e che nessuno è solo: esistono isole di sentire, aggregati di sentire che tengono assieme coscienze con evoluzione prossima e che le improntano e le orientano. 
Quando l’immersione nell’umore profondo della solitudine cederà il passo ad una visione più vasta, torneranno le connessioni e la compassione che le accompagna.
C’è comunque una nota di tristezza: si, inevitabile. Non è la tristezza propria dell’identità, è il riverbero morbido dell’angoscia da separazione che filtrata dalle comprensioni prende quella forma.
Passerà. Nessuno stato noi coltiviamo e lasciamo che sempre torni lo zero che non è né solo, né in compagnia; né triste, né allegro; né privo di senso, né saturo. OE7.6


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8 commenti su “La solitudine esistenziale: l’essere straniero, disadattato, triste”

  1. Grazie per questo post che leggo solo ora. Riconosco quella solitudine esistenziale, in un lontano passato vissuta con angoscia, poi diventata pian piano compagna di vita. Essa è un sottofondo sempre presente, inscindibilmente collegato a quel senso di fiducia di cui parla nostra sorella e quella consapevolezza “che tutti si procede assieme e che nessuno è solo”. In situazioni particolari, soprattutto nei momenti di consapevolezza dell’illusorietà dei “bisogni” e delle “rappresentazioni”, la condizione dell’essere in solitudine emerge e con essa sorge un senso di abbandono…

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  2. Credo di conoscere benissimo lo stato d’animo della sorella.
    A me capita spesso di sentirmi realmente solo anche tra amici intimi, persone che conosco benissimo. E’come se non riuscissi a trovare il filo conduttore che mi unisce a persone molto vicine… Incredibile.
    Un tempo mi facevo domande e come al solito le risposte finivano per penalizzare la mia persona.
    Ora so che può accadere e vivo quell’esperienza con lieve malessere.
    Non so se gli altri si accorgano di questa lontananza…Non lo so.
    Sinceramente sapere che altri vivono questo sentire, mi da un po’ di sollievo.
    Grazie per la condivisione e per la discussione.

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  3. “La coscienza in sé non vive l’esperienza della solitudine, ma è consapevole della separazione dall’Assoluto che viene registrata ad un certo livello del sentire relativo che illusoriamente la costituisce”
    Potresti spiegare meglio la seconda parte di questa frase, quella relativa alla separazione dall’Assoluto? In particolare la questione del sentire relativo. Perché è illusoriamente che costituisce la coscienza?
    Grazie

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