L’abbandono di sé senza sforzo

Dio o Mammona, è questa la morsa dentro cui è stretto l’umano? C’è un modo naturale e privo di sforzo volitivo per andare oltre di sé, per intraprendere il lento cammino dell’abbandono delle identificazioni, dei bisogni, dei condizionamenti e addentrarsi nel processo dell’unificazione che da sempre opera in noi, e che da un certo punto in poi diviene più pressante?
Vi riporto un passo di Enzo Bianchi tratto da questo commento al vangelo domenicale: “Vi è un altro a cui Gesù dice: “Seguimi”, ma si sente rispondere: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Richiesta legittima, fondata sul comandamento che richiede di onorare il padre e la madre (cf. Es 20,12; Dt 5,16). Gesù però chiede che, seguendo lui, si interrompa il legame con l’ordine familiare e con la religione della legge, dei doveri: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”.
Quando Gesù chiama, non si può preferire un comandamento, seppur santo, al suo amore: o si sceglie lui radicalmente o si continua a stare insieme ai morti! Di fronte a queste nette affermazioni di Gesù, come ci poniamo noi? Le assumiamo come una necessitas, oppure le leggiamo volentieri come iperboli massimaliste, oppure facciamo come la chiesa di oggi, che ha paura di chiedere la rottura con la famiglia a causa di Cristo e continua a beatificare la famiglia come se fosse la realtà ultima ed essenziale per la vita eterna?”
Tutto il commento di Enzo mi mette a disagio, e le parole attribuite a Gesù, anche.
C’è stata una stagione nella mia vita in cui avrei condiviso questo spirito radicale, ma non oggi.
Se debbo essere sincero, questa radicalità mi richiama a quegli estremi tentativi dell’identità di trovare un appiglio, un senso, e lo trova nel trip radicale, nello scuotere le fondamenta: le sembra di andare oltre tutto e tutti, in realtà quell’atto di adesione, di rinuncia, è l’ultimo dei trastulli, “nella sequela, fino in fondo, senza compromessi!” Temibile, molto.
Quando l’onda radicale passerà, quando l’ipnosi e l’autosuggestione soggettiva e comunitaria passeranno?
Non è forse la chiamata un processo? Ed è la chiamata alla vita monastica, al sacerdozio, alla radicalità delle scelte, o non è forse la chiamata all’incontro con se stessi e con il cammino di unificazione, chiamata che interpella tutti quelli che hanno maturato un sentire tale da poterla ascoltare e che viene dai cristiani interpretata come chiamata alla sequela di Gesù nelle forme che essi hanno costruito nella storia?
Dov’è dunque il problema? Se la chiamata è un processo che invita a dedicare la propria vita alla conoscenza, alla consapevolezza e alla comprensione – la sequela di Gesù, dal nostro punto di vista altro non è che questo – il problema sta proprio nella radicalità con la quale viene proposto.
Conoscenza – consapevolezza – comprensione richiedono il dispiegarsi di una vita, di molteplici relazioni, di tentativi e cadute, di ambienti che cambiano con il cambiare delle stagioni della vita.
Enzo dice: “Se avverti la chiamata abbandona tutto e segui Gesù, fai la tua scelta e non guardarti indietro!”
Noi diremmo: “Se senti che il cammino di unificazione ti interpella, dedicati ad esso e coltivalo là dove sei, nella tua famiglia, nel tuo lavoro e trova altri che come te avvertono quel richiamo e procedete assieme nella libertà dai vincoli e nella prossimità del sentire”.
Credo che anche Enzo, almeno in parte, condivida questa visione e la nostra è una differenza di accenti: ritengo temibile nella via interiore la radicalità delle scelte e delle disposizioni interiori, ritengo pericolosi i “per sempre!” e le adesioni che non hanno apparente ritorno.
La scelta di cui noi parliamo è scelta di adesione al processo di unificazione, dove l’abbandonare non è riferito alla famiglia, o ai possedimenti, ma alla relazione con essi, all’identificazione e alla dipendenza, al bisogno e al desiderio.
L’abbandono di cui parliamo è abbandono e basta e non comporta alcuna adesione ad un modello di vita, o ad un paradigma: è l’ingresso consapevole nel processo della disidentificazione e del superamento di sé.
L’abbandono di cui Enzo parla comporta l’adesione a Gesù – lui dice al Suo amore -, all’idea che i cristiani hanno di Gesù, alle forme della sequela che hanno costruito nella storia: Enzo non parla di andare oltre di sé e basta, parla di portare quel sé dietro a Gesù, all’idea di Gesù giusta e vera cui si sente di aderire.
E’ una responsabilità grande quella di proporre al nostro prossimo di aderire ad una visione fino al punto di abbandonare tutto per aderirvi.
La chiave di volta sembra quella dell’abbandonare tutto per Gesù, la seduzione di quel gesto radicale che a me pare viziata da una coloritura inconscia identitaria: va abbandonato tutto per Gesù, o va abbandonato lo sguardo consueto, vecchio, ottuso e cieco e quell’abbandonare, in sé, svelerà l’Amore/Realtà che c’è oltre l’ottusità?
Se è lo sguardo che deve rinnovarsi e rinascere, il processo che si disegna è tutto interiore e poco ha a che fare con il radicalismo esteriore: la disposizione radicale diviene allora un fatto interiore che abbisogna ogni giorno di essere rinnovato e che si dispiega nelle relazioni del feriale e dell’ordinario, non compiendo gesti eclatanti, né dopandosi con essi.
Il radicalismo dell’abbandono di cui parla Enzo, apre la porta a tutti i pericoli di un’adesione che viene e che ci costituisce come i “discepoli”, non come coloro che perdono e basta, che abbandonano e basta perché oramai, il compreso nel loro sentire a quello li porta in modo naturale, senza volontà e forzatura alcuna, senza sforzo, dunque.
Come dicevo prima, da giovane avrei apprezzato molto le parole attribuite al Maestro e perorate da Enzo: oggi penso che quelle parole, se il Maestro le ha dette, vanno inserite nel contesto in cui sono accadute e riferite agli interlocutori cui erano rivolte.
Fuori da quel contesto, svelano l’antica antinomia tra “Dio e Mammona” che, in ambito spirituale, è tanto accettata, condivisa e acriticamente proposta, quanto è superficiale e insostenibile: la porta dell’Assoluto, è l’adesione al mondo e il suo progressivo superamento; questo processo lo possiamo detestare, possiamo amare considerare il mondo come luogo del perdersi e coltivare tutti i nostri radicalismi che, però, parlano di noi, dei nostri bisogni e desideri, delle nostre proiezioni, non della realtà dei processi e del vivere universalmente sperimentato.


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1 commento su “L’abbandono di sé senza sforzo”

  1. Riesco a seguire ciò che dici.
    Però non ho ancora questa chiarezza.
    Il gesto, l’azione radicale, svolgono su di me una certa attrattiva.

    Poi mi ritrovo tutt’altro, a svolgere cioè una vita che radicale non è, dove non c’è un gesto o un’azione che risolvono tutto ma tanti piccoli tentativi e vie di mezzo.
    Non vivo quell’unità nel quotidiano e mi ritrovo spesso o con la guardia alta o a incassare un colpo perchè un attimo l’ho abbassata, questo è il mondo che vivo oggi negli affari.
    Una dimensione più protetta dove potermi ritirare da tutto questo dispiega su di me la sua attrattiva, il gesto radicale di un eremitaggio per un periodo di tempo per poi tornare.

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