Non ha senso parlare di una vita che ha uno scopo [vdc25]

Le basi della Via della conoscenza. L’uomo che è arrivato alla non-mente dovrebbe accettare di non agire affatto, perché l’azione implica una finalità, la finalità implica porsi un obiettivo e porsi un obiettivo implica considerare la realtà come qualcosa che si vuole modificare o alterare o strutturare secondo quanto si pensa.

Invece, per la non-mente l’accettazione del ciò che è implica che tutto ciò che avviene vada semplicemente constatato e non modificato, se non nel senso di adoperarsi nell’unico modo in cui è possibile farlo, che è agire secondo l’impulso che proviene dalla Coscienza. Ma allora a che cosa serve la volontà nell’uomo che progredisce e a che cosa gli serve nel momento in cui lui incomincia a fare il salto e si interessa a tutto quanto riguarda quel salto?

La volontà, l’ansia del modificarsi e il continuare a dirsi: “Io devo cambiare” sono utili all’uomo finché lui fa il passettino dopo passettino, e cioè tende verso un qualche ideale, per cui misura la distanza che nota in se stesso rispetto al suo ideale.

Ma quando un uomo matura in sé l’idea che non c’è ideale da raggiungere e che tutto ciò che esiste è già perfetto, allora che cosa succede dell’ideale e della sua azione o della sua volontà o dei suoi propositi?

E se si toglie anche la parvenza dell’impegno in direzione di un ideale, che cosa rimane di lui, come persona distinta, cioè come persona che si qualifica proprio per il fatto che è lui che tende a qualcosa o che è lui diretto verso una meta o che è lui che aspira a trasformarsi?

Quando si toglie anche questo, non ha senso per voi parlare di una vita che ha uno scopo, e allora la vita diventa semplicemente ciò che gli appare come avvenimento. E quindi non ha senso per voi parlare ancora di proposito evolutivo o parlare di uno sforzo che renda tutti voi adatti alla trasformazione che, prima o dopo, vi può portare a raggiungere l’Uno.

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6 commenti su “Non ha senso parlare di una vita che ha uno scopo [vdc25]”

  1. Vedo l’illusione del volersi migliorare, del trasformarsi e contemporaneamente la vivo, ovvero in me quell’impulso è forte, anche se sottotraccia. La mente chiede la definizione, il segnare i confini, l’essere definiti, il ruolo, il compito e la funzione. Difficile pensare di prescindere totalmente da questo meccanismo finché incarnati.

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  2. Come Elena mi barcameno tra il fare e lo stare.
    Il fare ha connotazioni di servizio, ma di certo implica una performance che impatta anche nell’ego.

    Lo stare, depotenzia il tutto e ristabilisce equilibrio.

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  3. Nessuna aspettativa, quando si è vicini alla non mente.
    Solo l’avvenimento in sé.
    A forza di leggere questi concetti cominciano a diventare familiari e “veri”

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  4. Posso intuire.
    Oggi vivo un doppio piano, scopo evolutivo e ciò che è convivono come due diverse tracce.
    E passo da un piano all’altro cambiando danza a seconda della musica di sottofondo.
    Il palazzo è uno.

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  5. “E se si toglie anche la parvenza dell’impegno in direzione di un ideale, che cosa rimane di lui, come persona distinta, cioè come persona che si qualifica proprio per il fatto che è lui che tende a qualcosa o che è lui diretto verso una meta o che è lui che aspira a trasformarsi?”

    Resta lo stare in un flusso da cui viene attraversato e sospinto senza conoscere la meta, sorretto da una certezza che guida e a cui affidarsi.

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  6. Tutto molto bello, pacificante, liberatorio.
    Questa sì che è una buona novella!
    Per iniziati, probabilmente, perché se fraintesa si presta al lassismo e al passivismo.

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