Le basi della Via della conoscenza. Se mai l’uomo arriva al punto in cui tutto accade, ciò non significa che egli se ne infischi di ciò che avviene attorno a lui e quindi non significa che se ne infischi delle sofferenze altrui, o dell’uomo che gli tende la mano; significa soltanto che il suo modo di guardare a tutto ciò diventa senza attaccamento.
Se diventa senza attaccamento, egli non coglie la sofferenza ma coglie la domanda, non coglie la virtù ma coglie la disponibilità e l’uno e l’altra non portano segni: sono, semplicemente sono.
E poiché sono, suscitano in lui un’unica risposta che è racchiudibile soltanto in questo suo pensiero: io porgo ciò che sono e non giudico e non dico e non suggerisco, se non ciò che sono.
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E ciò che sono è soltanto questo: non c’è né bene né male, ma tutto mi offre la possibilità per superare il concetto di bene e di male, e per posizionarmi lì, dove non c’è più distinzione fra ciò che si prova come corpo, come sentimento e come mente perché ciò che mi governa è soltanto una parola: non attaccamento.
Se questo accade, allora ciò che gli si presenta davanti agli occhi porta tutti i segni dell’umano, ma non nel modo con cui voi oggi li vedete; quei segni portano il limite dell’umano, però lui non sottolineerà più il limite, ma sottolineerà ciò che accade.
E nel ciò che accade lui coglierà l’essere Coscienza, perché quell’individuo coglierà l’amore anche nella sofferenza e ovviamente anche nella virtù, ma pure nel vizio lo coglierà.
E guarderà all’uno e guarderà all’altro non scegliendo l’uno piuttosto che l’altro, non orientandosi all’uno piuttosto che all’altro, non incamminandosi verso chi pratica il vizio piuttosto che verso chi pratica la virtù, ma accettando ciò che si presenta davanti a lui e inchinandosi a ciò che si presenta davanti a lui come espressione di ciò che è. Fonte
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Il Sentiero contemplativo, Cerchio Ifior
L’uomo per cui “tutto accade” è quell’uomo che fa risplendere l’umano nella sua più autentica luce, in questo “tutto accade” coglie l’essenza della Coscienza.
Sono immersa nel giudizio, nell’accadere, nella consequenzialità, nel più o meno Bene e Male e contestualmente sento quel posizionarmi con neutralità. Come fosse una vista bifocale, uno stare a due livelli.
È qualcosa che oggi sento va maneggiata con cura e attenzione.
C’ è attaccamento quando non si è liberi dal dominio della propria identità, quando ciò che accade viene letto ed interpretato a partire da se’ e a se’ deve ritornare.
È l’ingombro dell’identità a creare attaccamento. Ma così facendo non si riesce a cogliere il simbolo di ciò che accade.
Allora giudichiamo e parametriamo.
E la Realtà, nei diversi gradi in cui l’Amore si manifesta, rimane velata.
Mi viene in mente ,a testimonianza impertinente di un periodo in cui ho pensato che i fatti sono fatti. Oh divina la lumachina
che nella casa del.morto
si lecca la sua erbetta!
Scusate se sono fuori tema
Mi accorgo che in quella neutralità c’è un accoglienza profonda del CCE’.
Un’oggettivita’ che permette una maggior presenza e capacità di gestire i fatti.
Quando c’è attaccamento invece, percepisco subito che c’è un condizionamento che opera ed è più incerto il mio atteggiamento.
Ho imparato a riconoscere quando accade. In genere mi fermo, mi riconnetto, poi quando sento che posso esprimere qualcosa di più autentico, procedo.
Il non attaccamento, lo sguardo neutrale, il non giudizio, il fatto che accade visto come ciò che è.
Grazie a Soggetto per il suo formidabile insegnamento e grazie al Buon Amico per averci con sollecitudine e amore, mostrato cosa significhi interiorizzare questi concetti.
Spesso mi sono interrogata sulla natura di quel infischiarsene. Perché prime c’era un coinvolgimento che poi ha lasciato spazio alla neutralità e fin quando non si coglie la natura di quella neutralità, si vive una sorta di smarrimento.
Poi tutto prende forma e c’è il fluire…