Tutti e tutte le cose non sono altro da me [Antai-ji10]


Kōshō Uchiyama rōshiDiscorso d’addio ad Antai-ji.
Un termine che Dōgen nello Shōbōgenzō mette sempre in evidenza è jin: una piccola parola dai molteplici significati, perché esprime il senso di andare fino in fondo senza residui, esaurire senza lasciare niente, arrivare al non plus ultra.

Dōgen la usa in molte combinazioni: jin jippō kai (l’intero universo nelle dieci direzioni), jin issai (tutto fino in fondo), jin daichi jin  shūjō (la Grande Terra tutt’intera con tutti i viventi), jin-chi jin-kai jin-ji jin-pō (tutta la terra, tutto il mondo, tutto il tempo, tutte le cose).

In altre parole, la totalità onnicomprensiva nulla escluso, questo è la mia vita.
La vita di me, la mia vita, è senza soluzione di continuità con tutto.
Penso che io sia l’io che penso nella mia testa, ma nel momento in cui la mano del pensiero è aperta, io sono senza interruzione uno con tutto quanto.

Questa vita ininterrotta davvero non si comprende. Non riusciamo a pensare che sia sul serio così. Da quando sono diventato monaco ho continuato a praticare zazen, sono ormai trent’anni abbondanti e la sola cosa che poco a poco mi si va facendo chiara è che quel che chiamo io è senza soluzione di continuità con tutte le cose.

Zazen è qualcosa che per quanto uno lo faccia non conduce da nessuna parte, ma penso che la sola cosa che poco a poco si fa chiara a forza di farlo è che tutti e tutte le cose non sono altro da me. Provate e vedete voi stessi. Facendo zazen con tutto l’impegno possibile soltanto aprendo la mano del pensiero, capirete bene una cosa sola, di essere uniti con tutto senza interruzione.

Dove andiamo da morti? Non andiamo da qualche parte. Siamo già tutto in tutto. Anche se diciamo che veniamo al mondo, veniamo dal tutto in tutto. Chiunque, comunque, è tutto in tutto, che lo si pensi oppure no, tutto è in tutto.

Eppure, pensiamo che io sia solo il mio pensare di esserci, solo questo singolo individuo. Questo modo di pensare non ha scampo. Non è così. Che io lo pensi oppure no, tutto è il tutt’intero.

Anche se pensiamo di star vivendo in questo e quel modo, siamo l’amalgama delle verdure, del riso, delle patate… del cibo che abbiamo mangiato. Questo insieme di membra sembra formare un’entità a sé, ma in effetti, attraverso la pelle, calore e liquidi si disperdono, mentre nutrimento e luce vengono assorbiti. In realtà, c’è un libero naturale andirivieni. Tutto è in tutto.

Si dice che morendo si va da qualche parte, beh, si ritorna semplicemente all’intero universo. Non è forse per questo che quando una persona muore noi giapponesi scriviamo sulla tomba “nuovo ritornato all’origine”? Questo è il me originario. Fonte

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6 commenti su “Tutti e tutte le cose non sono altro da me [Antai-ji10]”

  1. “Penso che io sia l’io che penso nella mia testa, ma nel momento in cui la mano del pensiero è aperta, io sono senza interruzione uno con tutto quanto.”
    Meraviglioso!

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  2. Quei piccoli spazi esperienziali in cui viene sperimentata l’assenza del confine fra il sé e l’altro da sé, aprono a questo concetto non così facile da accettare per la mente.

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  3. “Siamo già tutto in tutto”. Formula molto efficace per affermare l’evidenza che non c’è nessun luogo dove occorre andare e nessuna meta da raggiungere e nessun cambiamento a pensarci bene. Non c’è diminuzione o aumento, ma solo passaggio dal Tutto al Tutto.

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  4. Molto calzante ed esplicativa la descrizione dell’essere un tutto con ciò che mangiamo e produciamo sia esso materia organica che pensieri, sentimenti, intenzioni.

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