Tenzo Kyokun: l’istruzione del cuoco zen, di Eihei Doghen [1]

Iniziamo la pubblicazione del Tenzo Kyokun, le istruzioni di Eihei Doghen – fondatore dello Zen di scuola Soto – al cuoco del monastero. In questo primo post riportiamo l’introduzione all’opera di Dogen di uno dei curatori e traduttori del volume “La cucina scuola della via, EDB, 1998“, Jiso Forzani.


In ognuno dei post successivi, di ciascun paragrafo del Tenzo pubblicheremo nell’ordine:
– una traduzione inedita, con aderenza letterale all’originale giapponese, di Jiso Forzani.
– la traduzione di Jiso Forzani e Luciano Mazzocchi contenuta nel volume citato;
– la ristesura in forma libera e commentata di Jiso Forzani di ciascun paragrafo apparsa nello stesso volume
;
– il Pdf della traduzione inedita, con relative note.

Nel 1227 il maestro Eihei Doghen, monaco Zen giapponese, rientrava in patria dalla Cina, dove era rimasto quattro anni. Divenuto monaco in giovanissima età, a tredici anni, dopo la morte del padre, funzionario imperiale di altissimo rango, e successivamente della madre, Doghen aveva impiegato dieci anni nello studio delle scritture buddiste, seguendo l’insegnamento della scuola Tendai, allora la più diffusa e rinomata in Giappone.

Narra egli stesso che una domanda guidava i suoi passi nella ricerca: è detto nel Sutra del Loto, il più importante testo canonico del buddismo mahayana, che la fede, nel buddismo, è riposta nel fatto che ognuno e ogni cosa ha intrinsecamente la natura di Budda, cioè è già partecipe, nella condizione presente così come è, della perfezione originaria della vita universale ed eterna: allora, stando così le cose, perché mai c’è necessità di percorrere la Via religiosa, come mai esiste una specifica vita religiosa fatta di pratica, di impegno, di applicazione, come mai tutti coloro che ci hanno preceduto hanno dedicato la loro vita a percorrere questa Via, se già ora ogni cosa e ogni persona vive la vita illimitata e perfetta?

Spinto da questa domanda, Doghen abbandona lo stile di ricerca della scuola Tendai, tutto imperniato sulla recitazione dei testi e sulla celebrazione di riti, e cerca di risalire alla fonte. Si reca al monastero Kenninji di Kyoto, che seguiva l’insegnamento del maestro Eisai, il quale si era recato in Cina, da dove aveva portato insegnamenti che costituiranno il fondamento dello Zen Rinzai giapponese.

Dopo una permanenza a Kenninji, durante la quale si lega con devota amicizia al monaco Myozen, Doghen decide di partire insieme a quest’ultimo e ad altri monaci, per la Cina. Il viaggio era allora molto pericoloso: i naufragi erano più numerosi delle traversate giunte a buon fine, il terribile kamikaze (vento divino), che aveva disperso la flotta di Gengis Khan, batteva incessantemente il mar della Cina. Affrontare il viaggio significava realmente rischiare la vita: questo solo fatto dice la disposizione d’animo dei monaci e dei fedeli che si recavano in Cina per attingere alla fonte dell’insegnamento di Budda.
Mettere in gioco la propria esistenza nel solo compiere la traversata, equivaleva a spogliarsi di tutto, e arrivare nel Paese di Mezzo pronti ad accogliere con animo nuovo la realtà.

Chi guarda con occhio fresco, coglie la freschezza di ciò che vede.
La prima intuizione di Doghen è quella che segna la sua vita e la sua trasmissione di insegnamento: il buddismo autentico non è una dottrina, non è una teoria religiosa, non è una raccolta di regole e di testi canonici: prima di tutto questo, oltre tutto questo, è modo di vivere, relazione concreta con la propria vita, forma effettiva del comportamento quotidiano.
Dal primo incontro con un monaco cinese, prima ancora di scendere dalla nave, Doghen comprende di dover cambiare atteggiamento esistenziale: capisce di doversi convertire per dare senso alla domanda che lo ha condotto fino in Cina. Quell’incontro è narrato in questo libro.

Per comprendere il significato di conversione, bisogna comprendere la natura di una parola che ricorre con frequenza in questo testo, e che è il fondamento stesso del buddismo: la parola Via.
In giapponese si dice Do, e deriva dalla parola cinese Tao.

Tao è il modo in cui i cinesi hanno reso due differenti parole sanscrite, unendole in una sola: Bodhi e Marga (in pali Magga).
Bodhi significa consapevolezza, risveglio, coscienza della realtà come realmente è.
Marga significa via, sentiero, cammino.
Do sta allora a significare il cammino del risveglio alla realtà come è davvero, la via che esprime la realtà autentica. Non è tanto un cammino da un luogo a un altro, da una partenza attuale a una meta prefissata, quanto il procedere che manifesta il modo d’essere autentico della realtà di ogni momento. In altre parole, la Via è la vita vissuta secondo l’orientamento proprio della vita.

Doghen, vedendo l’esempio di persone che cercano di esprimere con i singoli atti concreti della loro vita quotidiana la loro adesione alla Via, comprende che  intendere la religione come un sistema per raggiungere un traguardo ambìto (sia esso la felicità, il paradiso, il nirvana, la pace), è il risultato di una concezione profana, utilitaristica ed egocentrica: la religione è invece la via di vivere la vita autentica, come davvero è, ora in questo luogo.

[…] Così si risolve la domanda iniziale di Doghen: proprio perché ognuno e ogni cosa vive già ora la vita eterna illimitata e perfetta, esiste la Via di vivere la propria vita come vita eterna illimitata e perfetta, esiste la pratica religiosa che permette di aprirsi alla realtà del fatto che la propria vita non è solo un accidente individuale ma è la forma stessa della vita universale ed eterna.

Il senso di questo testo risiede qui: ogni attività (e non solo le speciali cosiddette attività religiose) può essere segno evidente del fatto che ogni istante è un momento dell’eternità: quanto allora sarà santa l’attività di colui che prepara il nutrimento, il pane quotidiano per le persone che si dedicano a vivere la propria vita come Via! Non può esserci nessuna attività più nobile, più religiosa.

La grande rivoluzione di Doghen, rivoluzione permanente e sempre attuale, è quella di mostrare sempre la relazione diretta e inscindibile fra la religione e la vita: anzi, neppure di relazione è giusto parlare, perché non sussiste la minima frattura, la minima distanza che permetta di dire che si tratta di due realtà: tutte le volte che questa distanza è percepibile, la religione muore e la vita si perde, o, per dirlo in termini più poetici il cielo e la terra sono separati, e regna la confusione.

Per comprendere l’opera letteraria di Doghen bisogna leggere con questa attenzione: il suo scopo è sempre tenere aperto il collegamento con la vita vissuta ora, in questo preciso momento, in questo preciso luogo.

[…] A questo stesso stile è improntata la nostra presentazione di questo testo. Quello stile che io ho potuto assaporare con gusto durante la mia permanenza al monastero di Antaiji in Giappone, in cui l’adesione della vita quotidiana alla Via viva è regola unica e globale.
Senza aver visto il tenzo di quel monastero al lavoro in ogni ora del giorno, senza aver io stesso fatto esperienza in quella cucina, non posso dire cosa capirei delle parole di Doghen. Soprattutto al mio maestro Koho Watanabe, persona della via in ogni circostanza che la vita gli ha offerto e imposto, si deve se qualcosa di quello stile è trapassato in me. […] Jiso Forzani
(Le evidenziazioni in grassetto sono del redattore, assenti nell’originale; i corsivi sono invece dell’autore)

Il canale Telegram di Eremo dal silenzio
Per rimanere aggiornati su:
Il Sentiero contemplativoCerchio Ifior

Print Friendly, PDF & Email

6 commenti su “Tenzo Kyokun: l’istruzione del cuoco zen, di Eihei Doghen [1]”

  1. Se veramente fossimo in grado di vivere ogni istante della vita nella sacralità che le appartiene…

    Non catalogheremmo una relazione migliore rispetto ad un’altra, non tralasceremmo una situazione a discapito di un’altra, non……

    Eppure sento in quella direzione essere attratta.
    Amen

    Rispondi
  2. “Esiste la Via di vivere la propria vita come vita universale e perfetta”

    Ogni attimo della vita ha valore di sacralità perché fa parte della vita universale. Questa comprensione è atteggiamento religioso.

    Rispondi
  3. Cosa sarebbe la pratica dello zz se rimasse confinata nel tempo della seduta? Lo zz ci apre verso la pratica dell’unità costante in ogni momento della nostra giornata.

    Rispondi

Lascia un commento