La presunzione di aver compreso

Quando insegnavo mi è stato mosso più volte l’appunto di chiedere molto a coloro che partecipavano all’organismo del Sentiero: in cuor mio credo di aver chiesto troppo poco.
Qual era la sostanza del mio chiedere? Se affermi di aver compreso questo, esso si deve specchiare nella tua vita, nei tuoi comportamenti.

Non essendo mai stato il Sentiero una comunità residente, ma diffusa, come potevo verificare se quelle affermazioni da parte delle persone, così alte e così pregne di apparente comprensione, fossero reali e non racconti delle loro menti da smascherare?

Potevo solo guardare a come avveniva la vita nell’organismo Sentiero, a chi metteva in gioco cosa, a chi partecipava, sosteneva, era lievito nella massa; altro modo non avevo per contrastare il più infido dei pericoli: coltivare una narrazione di sé non corrispondente al reale, spacciarla nelle relazioni, compromettere ogni possibilità di procedere assieme perché quel dichiarare ciò che non si è copre di non-realtà ogni fatto, ogni scambio, ogni proposito.

In una coppia, in una famiglia, la non sincerità non ha le gambe lunghe: la frequentazione quotidiana mette tutti alla corda, svela, provoca, distrugge le maschere, se i componenti non si sono già narcotizzati.

In una comunità diffusa si possono solo leggere i simboli, i segni.
Guardo un insieme di individui nei suoi comportamenti, interpreto i simboli e comprendo il perché dei suoi mali, delle sue difficoltà, o la potenzialità della sua motivazione.
I fatti ci svelano.

Negli anni dell’insegnamento ho cercato di fornire strumenti interpretativi, possibilità di confronto e di scacco, stimoli numerosi al fine di sintonizzare intenzione e azione: quando ho abbandonato l’organismo del Sentiero avevo la comprensione che non era possibile andare oltre, ogni partecipante si era impadronito del paradigma e lo sventolava a suo piacimento raramente supportandolo con la coerenza.
La vita interna dell’organismo, povera di stimoli, di sostegno reciproco, di collaborazione, di condivisione, di compromissione esistenziale smentiva ogni dichiarazione di principio, quel blaterare senza fine attorno a una presunta comunione di sentire che mai diveniva fatto riconoscibile, tangibile, coerente nella vita comunitaria.

La presunzione di aver compreso acceca come un lancio di acido sul volto: senza fine mi interrogo, non sulla vita degli altri, ma sulla mia, sulla mia presunzione.
La vita degli altri mi serve non per puntare il dito accusatore, ma per guardare ancora più in profondità me stesso.

Non vorrei che questi ultimi anni che mi sono dati di vivere fossero all’insegna dell’ipocrisia:
– dire quello che in realtà non sento;
– testimoniare quello che in realtà non sperimento.
Un incubo per chi cerca di non affermare e comunicare mai ciò che non ha ampiamente provato e sperimentato.
Un fallimento totale ogni parola detta che non sia supportata dalla più alta coerenza possibile e dalla consapevolezza della propria sincerità e onestà.

Bisogna ricordare che non basta sentirsi onesti, quella millantata onestà deve passare la verifica delle relazioni, essere messa radicalmente in crisi per trovare un livello più autentico e più alto ogni volta.

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11 commenti su “La presunzione di aver compreso”

  1. Riconosco e conosco il pericolo di cui si parla in questo post e cerco di vigilare per evitare di parlare di esperienze immaginate più che vissute.
    La mente è sofisticata e per salvare l’immagine dell’identità fa uso a suo piacimento di concetti spirituali. Benché questo sia chiaro, nella buona fede, a volte si può credere di aver compreso o sopravvalutare la comprensione acquisita e non rendersi conto della sua relatività.
    La relazione con l’altro ci svela e ci dà la possibilità di metterci in discussione e rivedere la nostra valutazione di noi stessi. Sta a noi cogliere questa possibilità, per non cristallizzarci nella falsità.

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  2. Comprendo gli stimoli, comprendo l’intenzione di chi li esprime. Ancora tante energie spendo nel divenire, in quell’officina esperienziale di cui comprendo mai come ora la necessità e i benefici.
    Oltre non restano troppe energie. Questo è, questa è ecologica personale, questo è rispetto di questo CCE nei suoi infiniti limiti.
    …e non è voler nascondersi

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    • Ad Anna
      Non intendevo stimolare nessuno, cara Anna, non ho più funzione attiva e non voglio averla.
      Per quel che ti riguarda, io credo che tu sia una di quelle che non ha nulla da rimproverarsi: non conta solo la quantità ma anche la qualità della propria presenza e tu, certamente, hai dato quel che potevi sia in quantità che in qualità.

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  3. Nel sentiero non sono mai venuta, quindi non posso sapere come erano le vostre interazioni; tuttavia perché avere paura di non essere autentici? Non è forse l’intenzione quella che distingue una azione consapevole da una inconsapevole? Può l’intenzione essere fallace? Beh si, certo…ma non siamo forse in cammino verso un ampliamento del sentire? Non siamo forse scintille divine in cammino alla ricerca la strada di casa?

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    • A Mariela
      Molti sono i nascondimenti, le narrazioni soggettive e illusorie cui va incontro una persona della via.
      Narrazioni illusorie su di sé e sulla vita: per questo è importante procedere nella relazione vera, intensa,
      spassionata con altri compagni di viaggio, e se lo si ha, con un maestro.
      Certo, ci sono le relazioni familiari, amicali, e anche queste sono, ovviamente, efficaci;
      la relazione tra compagni di una stessa via spirituale ha una sua specificità,
      la possibilità di collaborare smascherandosi consapevolmente e in maniera diretta
      utilizzando gli strumenti che la via ha messo a disposizione
      .
      Ma perché questo accada è necessario che le persone sappiano costruire relazione tra di loro,
      officine esistenziali sorrette dalla volontà personale in cui si riversano delle energie non residuali.
      Qui, l’organismo del Sentiero ha fallito drammaticamente e ancora non è consapevole di questo fallimento,
      e della responsabilità di ciascuno dei suoi membri nel determinarlo.

      Senza relazione profonda una via diviene una bocciofila, o una squadra di calcetto, o l’appuntamento per l’aperitivo settimanale.
      La relazione profonda chiede energie, chiede tempo, chiede disponibilità di fondo.
      Certo, se le persone sono impegnate nella vita in tanti modi,
      hanno risorse limitate per la relazione specifica richiesta dal cammino comune,
      ma ci sono infiniti modi per farsi sentire presenti,
      infiniti codici che si rendono manifesti e che dicono: ci sono, questo è il mio contributo,
      magari piccolo, ma reiterato, vigile, sollecito, che ti dice che la mia energia è in campo.

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  4. La più mendace delle rappresentazioni credo sia comunque sempre stata supportata dalla buona fede, penso da parte di tutti.
    La contraddizione, l’incoerenza, il vizio, sono tratti della personalità o della persona con i quali il sottoscritto ad es. ha ancora parecchio a che fare.
    Tendo a coltivare l’indulgenza che può essere sinonimo di tiepidezza, tanto deprecata.
    Può essere, può non essere, può in certi casi.
    Vorrei smettere di dolermi della mia innegabile ed abbondante miseria, per vivere con anche un po’ più di leggerezza.
    Se mi volevano perfetto mi facevano dio.
    Ah ah ah!

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  5. L’altro mi svela. Imparando ad osservare la mia reazione, rispetto a ciò che nella relazione emerge, cerco di comprendere quali sono gli ostacoli che si frappongono tra il mio proposito e l’effetto provocato.
    Passo dopo passo cerco di scorgere quali sono i recitati della mente, quali i condizionamenti, quali i timori.
    È un lavoro senza fine.
    L’esperienza, negli anni, qualche comprensione sembra averla maturata.
    Ma l’attenzione non va distolta. Come dici, il pericolo che la mente si impadronisca del paradigma per poi rafforzare ancora di più l’identità, è il peggiore dei pericoli.
    Grazie.

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