L’amore che non ci compete

Riporto questo brano di Scifo, CI, perché desidero tornare sul tema degli assoluti, e non solo.
Tu, creatura, chi sei?
Tu sei ciò che dai agli altri.
Tu sei la compassione che sai donare a chi sta soffrendo.
Tu sei la dolcezza che trasmetti a chi è amareggiato.
Tu sei il sorriso che porgi a chi è infelice.
Tu sei tutto quello che di te agli altri arriva.
Tu sei.
Tu, da solo, non sei nulla, creatura.
Tu sei.
Tu sei gli altri, oltre che te stesso.
Tu sei.
Tu sei in me, figlio mio.
Tu Sei.

Un atto d’amore di grado 10, prefigura un atto di grado 100, quello perfetto?
Dio è 100 più qualcosa d’altro?
La mia capacità di dare relativa, è imperfezione?
La mia incapacità di dare e di prendermi cura, è imperfezione?

Il tema trattato da Scifo è quello consueto della tradizione cristiano-teosofica, dove abbondano gli assoluti e le loro iperbole, e dove l’umano è colui che dalla imperfezione deve giungere alla perfezione: perfezione ovviamente assimilabile a Dio.
È questa la Realtà? Dubito fortemente, e più volte ho ragionato attorno a questo.
Questa è una delle realtà del divenire, non certo l’unica: ad esempio, l’oriente spirituale non ha avuto questo approccio alla vita, né al Divino.
Questo è l’approccio che trae origine dall’idealismo, dalla lettura ellenistica dell’esperienza del figlio del falegname. Ma non ho competenze per discutere di questo, e non è l’ottica che mi interessa.

Se l’amore di grado 10 non prefigura l’amore di grado 100, cosa è?
Quello-che-è.
Non un grado dell’amore perfetto, ideale, ma semplicemente l’amore-che-è.
Mi si obbietterà che non è l’Amore con la A maiuscola: e chi l’ha detto che esiste l’Amore con l’A maiuscola?
Se frammenti l’Assoluto, allora esistono i molti e l’Assoluto, ma se non lo frammenti?
Allora il grado 10 è come il grado 100, quello-che-è.
Voi direte che il divenire è la virtuale frammentazione dell’Essere: vero, la virtuale frammentazione, ovvero l’illusoria frammentazione.
Se ti identifichi con quella virtuale frammentazione, allora l’amore di grado 10 vale dieci volte in meno di quello di grado 100, ma se esci dal paradigma della virtuale frammentazione?
Questa visione è una peculiarità dell’occidente, non tutti gli umani che vivono nel divenire aderiscono a questa interpretazione.

Se esco dalla logica del divenire, della frammentazione della Perfezione, dunque del limite come condizione d’esistenza, cosa rimane?
La realtà così come è.
E come è? Bianca, nera, gialla, ampia, stretta, umile, altera, generosa, egoista, possibilista, pessimista, dedita, ritrosa, espansa, contratta, ecc.
Se sono capace di vivere il quel-che-è, cosa si dischiude all’esperienza?
La natura autentica (E. Dogen) di ogni fatto.
L’Essere.
Quante volte abbiamo detto che se sei consapevole di una sensazione questa ti apre la porta dell’Essere?
Ecco di questo stiamo parlando: ogni fatto mostra, svela l’Assoluto, è l’Assoluto. L’Essere.

A chi è accessibile questo Assoluto, questa natura autentica?
All’evoluto? Ma quella natura autentica non ha niente a che fare con il divenire, con l’essere evoluti o no, è la natura di ogni fatto esistente e dunque travalica ogni considerazione sullo stato evolutivo di quel fatto: ripeto, l’amore di grado 10 è un fatto come l’amore di grado 100, l’uno e l’altro mostrano la natura loro autentica, sono quella natura.
C’è natura autentica e natura autentica? No, non nell’Essere, e si può parlare di natura autentica solo nell’Essere.
Ecco allora che quella natura è a disposizione di tutti, indipendentemente da come essi sono collocati evolutivamente nelle logiche del divenire.
L’evoluto e l’inevoluto hanno accesso a quella condizione perché essa è la radice e l’essenza di ogni esistenza: vi ricordo che il frazionamento è virtuale e per esistere ha bisogno che io lo creda.
Ma se lo annullo con la mia pratica di vita?
Come? Ad esempio, coltivando senza fine l’adesione al presente che accade e al dubbio sul paradigma del divenire; praticando instancabilmente la disconnessione da ogni identificazione. Facendo, nella sostanza, della mia vita uno zazen permanente, un atteggiamento meditativo che rappresenta lo zero a cui senza fine ritorno e dove risiedo per scelta e per esperienza.

Cosa rimane allora della narrazione cristiano-teosofica?
Niente, nell’Essere.
Significa che non conoscerò l’amore, né l’Amore?

Significa che quella forza dell’Essere che chiamiamo amore, passerà come il vento attraverso questo fatto che porta il mio nome e andrà ora di qua, ora di là, ora da nessuna parte e non mi riguarderà affatto dove andrà, perché non compete a me, non essendo frutto mio, né merito mio, né dovere mio il dove vada, il cosa farne, il donarlo o il non donarlo.

L’amore di cui parla Scifo ha senso solo all’interno di un certo paradigma fortemente condizionato dalle logiche del divenire: in altre logiche, più illuminate dall’Essere, esso ha poco da dire pur meritando la più grande delle considerazioni.

La comprensione chiave è che la vita dell’umano è chiamata ad esprimere la sua natura autentica, natura che non si coglie, né si esprime nell’identificazione con l’illusorio divenire, ma solo risiedendo nell’Essere che in ogni fatto si manifesta.
L’Essere è la Realtà che emerge se siamo liberi dall’identificazione con il divenire, con l’imperfezione, con il limite e se lasciamo che ogni fatto ci attraversi come il vento attraversa una porta aperta.
Si tratta dunque di essere porta aperta, il resto non ci compete, è Essere-che-è.


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7 commenti su “L’amore che non ci compete”

  1. Dovrò tornarci ancora, non basta una lettura. Ancora non mi sono chiare delle cose, ma non saprei declinarle. So solo che l’argomento mi tocca e un po’ lo temo, perché implica scardinare alcuni assunti radicati nel mio modo di pensare e di vedere il mondo.

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  2. Suggestivo pensare che anche la favola del peccato originale, quel cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza (ovvero del fare esperienza) del bene e del male possa essere un invito, molto ben celato ed arzigogolato, a non approcciare la vita in modo divisivo, duale…
    Grazie

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  3. Poter andare oltre il condizionamento della cultura che ha caratterizzato la nostra formazione. Abbandonare gli archetipi transitori che hanno rappresentato un riferimento fino all’incontro col sentiero, ma anche oltre, perché non è facile cambiare. “Esprimere la Vita autentica”. Questo è il lavoro, tutt’altro che scontato che dobbiamo perseguire. Richiede molta presenza, attenzione e dubitare di ogni interpretazione della mente. Credo che sia un percorso difficile da fare da soli. Gli stimoli e le osservazione dell’altro sono necessari per aggiustare il tiro e non perdersi.

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  4. Oltre il giudizio della mente, che continuamente dà giudizi di valore e fa classifiche, ogni fatto è semplicemente quel che è. Ricordarcene il più possibile è il nostro compito.

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