Ancora sul rigore, sulla disciplina e sulla contemplazione

Proseguo il ragionare iniziato ieri con il post L’allenamento, la disciplina, il rigore nella via interiore matura.
Nel Sentiero la disciplina è da considerarsi più una conseguenza, un frutto maturo piuttosto che una condizione da cui partire, ma su questo è comunque necessario intendersi.
Un bambino formato nella pratica delle arti marziali, o di un’arte come la danza, è in grado di gestire alcune sue dinamiche interiori molto meglio di un suo pari che quell’esperienza non ha fatto.
Un adulto, che è passato attraverso una psicoterapia prolungata nel tempo, ha acquisito capacità di gestione della propria mente e delle proprie emozioni che altrimenti non avrebbe avuto.
Entrambi, il bambino e l’adulto, hanno sviluppato una disciplina interiore che li aiuta a vivere una vita ordinata perché nei loro corpi c’è ordine, così come nella loro identità/interpretazione di sé.
La conoscenza di sé, l’esperienza delle proprie reazioni, il superamento dei conflitti ha prodotto un sistema d’ordine fluido e sostanziale entro il quale si svolge il processo del vivere: la disciplina è stata interiorizzata, la persona non ha bisogno di una autorità esterna che la guidi e, in alcuni casi, non ha nemmeno più bisogno di aderire a particolari archetipi transitori.
Questo sistema d’ordine fondamentalmente disciplinato è il contenitore adeguato per la pratica di qualsiasi arte, di qualsiasi professione, per vivere una vita armoniosa e proficua: una identità stabile, flessibile, capace di coltivare il dubbio e la relatività del proprio personale punto di vista apre molteplici possibilità creative. Perché?
Perché rappresenta un canale aperto e funzionale ai processi che la coscienza intende attivare e perseguire.
Il danzatore, di cui la nostra giovane amica si è occupata, ha bisogno di una identità docile che si lasci condurre dal sentire; ha bisogno di un corpo allenato, di movimenti e tecniche interiorizzati, di una mente che sa restare libera, di un’emozione trasparente e sgombra: allora può accadere che la guida del danzare non sia affidata alla volontà del soggetto, né alla meccanicità delle tecniche apprese, ma sia saldamente in mano al sentire e alla sua forza creativa che conduce il danzatore ad essere strumento di un’intenzione che ne sublima le capacità.
Tutto il cammino umano conduce a questo: l’umanità, nella sua forma identitaria, subisce una trasformazione radicale e una sublimazione sostanziale: l’umano diviene intenzione-in-atto, ogni separazione tra coscienza/intensione e identità/azione viene superata e assistiamo al miracolo dell’unità dell’essere che tanto ci impressiona quando accade in noi, o quando lo vediamo accadere in altri.
Questa è l’esperienza contemplativa di cui noi così spesso parliamo e che è preparata da cicli di intere vite.
Ora, se è vero che tutta l’acqua va al mare, anche tutte le vite giungono a quello, ma dipende da come vi giungono, con quale tasso di fatica: la via della conoscenza di sé, della disciplina che ne consegue, della rigorosa coltivazione della consapevolezza permettono di proseguire il cammino con un ridotto tasso di dolore proprio perché forniscono gli strumenti per la gestione dei bisogni, dei conflitti, delle paure, dunque addomesticano il veicolo identitario affinché sia docile sotto la spinta del sentire e delle comprensioni che questo mette in cantiere.
Nel post precedente ho parlato di addestramento, disciplina, rigore, termini complessi e duri per identità che non ne comprendono il significato: una persona della via interiore, quando si parla di rigore – per fare un esempio – non si spaventa, sa quanto, in alcuni momenti, spinte contrastanti la attraversano, quanto la inducono a cadere e quanto essa cada.
Il rigore sta forse nel non permettersi quel cadere? No, sta nella capacità di ricominciare daccapo finché non viene meglio, finché l’asino non è domato e la comprensione avviata sulla via del conseguimento.
Se parlo di rigore la mente si ribella, nella sua limitatezza sente odore di preti e di morali, di repressione e di coercizione: non sa cosa dice.
Il rigore che ci innerva, che diviene parte di noi, è la capacità di ricominciare, di rincollare i cocci e provare senza fine disposti ad imparare di nuovo e di nuovo ancora.
Quel rigore non ha a che fare con una legge e la sua osservanza, non è un censore implacabile, non parla di un dovere, è una forza che genera una capacità:
– la capacità di vederci;
– la capacità di dubitare;
– la capacità di osare;
– la capacità di dolersi;
– la capacità di ricominciare;
– la capacità di perseverare.
Quel rigore/forza-interiore diviene una disciplina, una pratica in una forma che si ripete interiorizzata nel tempo.
Questa precisazione sul rigore è indirizzata a quelli di voi che hanno storto il muso di fronte all’uso di questo termine, ma di certo non ha alcun senso per la nostra giovane amica la quale lo usa nella sua tesina sapendo perfettamente cosa esso significhi ed implichi per una persona addentro all’arte della danza.
La forza interiore che ha condotto Bolle – per fare un esempio – a dazare come danza, è la stessa che ha permesso alla nostra amica S. di superare il suo problema giovanile: entrambi hanno provato senza fine a superare il loro limite obbedendo ad una spinta che sorgeva nel loro intimo e che li conduceva oltre se stessi e le contingenze del momento.
Quei tentativi nascevano da un rigore interiore che prendeva la forma dell’anelito, della disciplina, del coraggio.
Ecco allora che il rigore altro non è che la conseguenza di una chiamata interiore e della decisione di obbedirla superando ogni protesta, ogni crisi, ogni caduta, ogni successo effimero: è un andare fino in fondo nel proprio processo esistenziale  e nella chiamata ad una completezza unitaria.


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7 commenti su “Ancora sul rigore, sulla disciplina e sulla contemplazione”

  1. Il post chiarifica bene quanto esposto in quello precedente.
    Mi chiedo però dove abbia origine quella forza interiore. Sicuramente è il risultato di un processo, di una moltitudine di esperienze fatte in tante esistenze. Quindi ce l hai, o ce l hai in parte, se non hai ancora maturato tutte le comprensioni necessarie, o non ce l hai affatto.
    Qual è quindi l intenzione di chi scrive:
    1) fotografare un dato esistenziale?
    2) stimolare un certo atteggiamento da parte di chi si trova sulla soglia di quel livello di sentire?
    3) rendere più consapevole chi già ha maturato quelle comprensioni?
    Se uno quella forza non la sente, evidentemente non ce l ha ancora. Che cosa può fare in questo caso un post come questo?
    Questo è un tema che torna spesso. Se tutto dipende dalle comprensioni raggiunte, che cosa posso io, come identità, se non accettare il fatto che sono quello che sono, che già sarebbe tanto?

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    • Marco. Chi ha già maturato quella comprensione, l’ha in sé; per tutti coloro che vanno maturandola, può essere di stimolo e chiarificazione; per chi è ancora lontano, è una indicazione, una direzione, un obbiettivo verso cui dirigersi e tendere, non altro.

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  2. E’ importante la declinazione che fai del rigore, vale a dire, non nel permetterci di non cadere ma nel saper sempre ricominciare una volta caduti. E’ una visione liberatoria.

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  3. Superata la prima fase di ribellione di fronte ai concetti di disciplina e rigore che per anni hanno contraddistinto la mia vita, ora ne riconosco l’importanza. La costanza non è mai stata una mia particolare dote. Ora però comprendo che un certo rigore, appreso nel corso della vita, ha fatto sì che rimanessi salda e ancorata al mio sentire. Le mie scelte nel tempo sono diventate via via meno condizionate dall’emotività e dal bisogno di soddisfare bisogni effimeri. Concordo che un tale atteggiamento non è la premessa, ma una conseguenza di un processo che sposta lo sguardo dal proprio ombelico ad un orizzonte vasto, in cui non è più importante imporre la propria individualità, ma piuttosto piegarsi alla Vita fino a riconoscere che siamo solo strumenti per un disegno molto più vasto.

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  4. Nella mia vita ho provato la disciplina e il rigore, che insieme all’autoanalisi e al perdonarsi sono stati fondamentali per uscire da una dolorosa cristallizzazione. Così questi termini non sono forieri di orticaria, ma di un senso profondo di libertà!
    Grazie per questo ulteriore post a completamento.

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