Sul recitare, sul fare, sullo stare e sulla propria irrilevanza

Scrive un fratello nel cammino: Il bisogno di recitare un ruolo si sta affievolendo giorno dopo giorno, non perché ora sia più sicuro o spavaldo rispetto a prima; avverto piuttosto una maggiore consapevolezza e sto imparando a non essere troppo identificato nei fatti che arrivano. Ora mi basta lavorare giorno dopo giorno sulle piccole cose, accettando di cadere quando sbaglio, per poi rialzarmi e provare a fare meglio di prima.
Recitare: stanchi della parte, della veste di attore, del ridurre l’altro a spettatore di dinamiche nostre infine proviamo a lasciar andare.
Ci arriviamo per stanchezza, per nausea, per disagio esistenziale non più sostenibile, per conflitto che avvertiamo debba essere affrontato.
Comunque arriva il momento in cui ne abbiamo abbastanza della rappresentazione usurata di noi e dobbiamo/vogliamo uscire dal copione: quello che ci apprestiamo a vivere è un processo che ha le sue asperità e si fonda sulla disponibilità:
– a non nascondersi più;
– a portare sulla scena la semplicità e la banalità del proprio essere ed esistere;
– a non farsi paralizzare dalla aspettativa, o dal giudizio dell’altro.
Al centro di questo nuovo processo c’è essenzialmente la disponibilità a non essere per forza speciali, avendo compreso che l’avere un posto nel mondo e l’essere accolti non ha a che fare con l’essere speciali, ma con l’essere quel-che-si-è.
Il fratello afferma: Ora mi basta lavorare giorno dopo giorno sulle piccole cose, accettando di cadere quando sbaglio, per poi rialzarmi e provare a fare meglio di prima, in questa affermazione c’è la disponibilità a stare su di sé senza rincorrere alcunché e senza raccontarsi storie: nella ferialità quotidiana si incontra il determinante per noi e, come lo incontriamo noi, lo incontra ogni essere esistente, umano e non umano. Questa consapevolezza ci rende non speciali e ordinari e finalmente in pace dentro la rappresentazione che chiamiamo “la nostra vita”.
Quella pace-con-sé non è il frutto di un’autoconvinzione, ma di un lungo processo fondato sulla conoscenza-consapevolezza-comprensione: la persona centrata su di sé, fulcro di un microcosmo, non accetta la normalità e la banalità del suo vivere, ha bisogno di sentirsi speciale e, nelle relazioni, chiede di essere il centro.
È il mancante, colui che deve avere qualcosa che non ha, che ha bisogno e necessità.
La persona macerata dai processi supera l’illusione della propria centralità e accetta senza fatica di essere irrilevante tra irrilevanti.
Questa persona accetta anche la chiara consapevolezza della aleatorietà delle proprie mancanze, dei propri bisogni, e avverte che la via non è il rimanere aderenti al desiderare, ma semplicemente all’essere.
Vi dà fastidio questa insistenza sulla banalità e sull’irrilevanza del nostro essere? Bene, vi auguro di provare molto fastidio almeno fino a quando non ne comprenderete la ragione.
Quando alla persona basta lavorare giorno dopo giorno sulle piccole cose vuol dire che ha valicato il confine del fare.
Definirei la tensione al fare come la madre di tutte le dipendenze, di tutte le tossicità.
L’identità-a-cui-mai-basta-il-reale si proietta su qualcosa che è certamente meglio di quello che ha ed inizia, o reitera, un meccanismo infernale che la porta lontano da sé come poco altro. Perché?
Perché al fare, più o meno compulsivo, è sempre legato un tasso di identificazione: se non c’è identificazione, non si genera il fare e se c’è il fare significa che il tasso di identificazione è alto.
Identificazione con cosa? Con il bisogno di senso, o di piacere, o di gratificazione, o di quello che vi pare.
Disattivare il fare significa vederne l’identificazione che ne è la forza implementante.
Se si vede l’identificazione allora i passi successivi sono:
– la disconnessione;
– lo stare.
Nello stare basta lavorare giorno dopo giorno sulle piccole cose, accettando di cadere quando sbaglio, per poi rialzarmi e provare a fare meglio di prima.
Ecco, basta questo, non c’è bisogno di infiorare: si sta sul quel che è e sul quel che c’è.
Un momento si impara e l’altro si contempla.
Un istante si vive una identificazione, e l’istante successivo si è nella perfetta neutralità.
La vita non è niente di speciale e noi siamo proprio ordinari.
Quando avremo compreso questo, compreso, non capito, allora lo supereremo e scopriremo che non è un’affermazione vera. OE4.6


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5 commenti su “Sul recitare, sul fare, sullo stare e sulla propria irrilevanza”

  1. Mi interroga molto questo post. Da sempre mi definisci la donna del fare ed è così. Ho sempre molti impegni e in testa anche di più di quelli che riesco a fare nelle 24 ore della giornata. Dovessi dire ora, però, che questo mio fare è funzionale al mio bisogno di identificazione, non ne sono certa. Un tempo, lo riconosco, la mia operosità era utile alla necessità di essere vista. Ora non mi pare che sia così! Anche perché riconosco i miei grandi limiti e riesco a sorriderne. Come dice il nostro fratello del cammino, “accetto di cadere, mi rialzo cercando di fare meglio di prima”. Ma non temo il giudizio dell’altro, è un dialogo interiore, sgrossare le tante imperfezioni nell’intento di affinare la propria capacità di sentire. Poi c’è anche l’accettare lo stile di vita che la Vita mi propone. Avere ora la forza e la salute per far fronte agli impegni avrà qualche nesso. Di certo però non sarà sempre così, e capirò forse meglio se questo mio fare sarà stato necessario o no. Un abbraccio.

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  2. Ho compreso con dolore e sicuramente in minima parte, l’essere irrilevante. Prima l’identità pianificava tutto, adoperandosi nel fare. Oggi non posso certo dire che non ci sia più il fare (tra l’altro in HD risulta che esprimo me stessa attraverso l’azione) ma c’è decisamente più discernimento in ciò che si decide di esercitare. Ciò che conta poi è il come lo si fa. Grazie.

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  3. (premetto che mi sto allineando ora con gli ultimi 4-5 post causa impegno organizzativo per scherzi di un matrimonio di un caro amico).
    Anche qui leggo qualcosa che mi tocca nel profondo: “..la persona centrata su di sé, fulcro di un microcosmo, non accetta la normalità e la banalità del suo vivere, ha bisogno di sentirsi speciale e, nelle relazioni, chiede di essere il centro..” Qui casca il mio asino personale e sono nudo. Sento che spessissimo la mia mente ha bisogno di stare al centro, di essere continuamente gratificata, dove non c’è un appiglio mentale vado in crisi, oppure sento la “TENSIONE DEL FARE” che, come scrivi, mi intossica il fisico.
    Ho però degli strumenti per “annulare” il mio IO. Disconnessione e Stare e con questi sto smartellando con pazienza su questo muro che mi sono costruito da solo

    Grazie Roberto!

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  4. Grazie. Possiamo solo proseguire nel cammino di conoscenza, consapevolezza e comprensione, perché aspirare ad essere non condizionati dalle proprie identificazioni non significherebbe altro che negare quel che si è.

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