Appunti sulla trasmissione della comprensione spirituale

Formato pdf A4 per la stampa, 3 pagine.
Da una conversazione in chat su WhatsApp:
Samuele: Vi siete mai chiesti perché, con tutta l’importanza che ha dato alla parola, all’insegnamento, Gesù abbia scritto solo sulla sabbia?
Roberto:  Interessante; non credo lui si ponesse più di tanto il problema della trasmissione sapendo come funziona. Bisognerebbe chiedere ai suoi millenari discepoli  perché si sono aggrappati alle sue parole come cozze allo scoglio..
Paolo: Azzardo una risposta: perché hanno poca dimestichezza con lo Spirito?
Come avviene la trasmissione di un insegnamento?
Cosa viene trasmesso da insegnante a discepolo?
Per rispondere a questa domanda bisogna comprendere la natura di un insegnamento che è:
– un paradigma;
– una testimonianza di pratica e di vita;
– un sentire.
Questa “triplice irradiazione” (perdonate l’espressione!) coinvolge il discepolo su più piani, si impone alla consapevolezza dei vari corpi, interroga l’insieme della sua esistenza.
A seconda della maturità di sentire conseguita, il discepolo interiorizza principalmente il paradigma, o la testimonianza, o il sentire, o l’insieme complessivo dell’irradiazione.
Ciò che sorge nella relazione insegnante/discepolo diviene in vario grado la vita di quest’ultimo e plasma il suo ambiente esistenziale interiore ed esteriore.
Nel tempo, attraverso l’esperienza, la conoscenza, la consapevolezza e la comprensione, l’insegnamento si iscrive nel sentire: ciò che il discepolo ha ricevuto ora è in grado, in varia misura e ampiezza, di irradiare e può farlo in virtù della comprensione conseguita.
Il seme dell’insegnante ha portato frutto: ha contribuito a generare processi i quali hanno deposto e condotto a germinazione altri e, a volte, innumerevoli semi.
Questo è il canale della trasmissione feconda e piena. Naturalmente esistono molte altre modalità di trasmissione che vedono porre in rilievo il paradigma, o la testimonianza ma, quella indicata, è la più integrata, quella che si-fa-vita-unitaria.
Nella trasmissione prevalgono anche accenti diversi: le persone con una disposizione cognitiva accentueranno quell’aspetto e quelle con una preminenza affettiva quell’altro; le persone inclini al fare privilegeranno le opere: questi sono accenti presenti sia quando la trasmissione è unitaria e coinvolge l’insieme dei piani e dei corpi, sia quando privilegia un aspetto della “triplice irradiazione”.
Precisato questo, voglio fare un esempio: in ambiente zen è presente di frequente non solo la pratica e la filosofia che provengono dalla tradizione, ma anche un certo costume che imita e ripropone i modi della cultura giapponese, sebbene lo zen sia universale e viva molto bene anche lontano dalla cultura che l’ha incubato.
Perché accade questo? Per una serie di ragioni che qui non posso analizzare volendo focalizzarmi su una in particolare: perché, non di rado, l’insegnante non ha adeguatamente compreso ciò che insegna.
Ora spostiamoci dall’ambiente zen a quello cristiano: perché i cristiani hanno un così profondo bisogno di nutrirsi della parola del Cristo?
Risponderò in modo brutale: perché non hanno –  molte volte, non sempre –  altra via certa alla dimensione del Cristo.
Attingere alla parola di Lui è poter bere alla sorgente di un concetto che apre ad una riflessione, ad una interrogazione, ad una revisione di vita, ad una ispirazione, ad una risonanza nel sentire.
La parola di Lui è il diapason di cui parlavo nel post La neutralità è il frutto del sentire e la radice di ogni realizzazione: è l’ancoraggio di una vita, il pane del quotidiano, il cielo e la terra e, infine, l’alfa e l’omega perché contiene e compendia l’intero cammino del discepolo.
Messa così, la cosa è perfetta ma, purtroppo, non è solo così, almeno secondo il mio punto di vista.
Vale per i cristiani quanto vale per certi insegnanti e praticanti dello zen: quando non hai ben compreso l’insegnamento, la sua natura e le sue implicazioni, ti porti appresso varie zavorre e condizionamenti che lo appannano e lo appesantiscono e, a volte, lo occultano.
Un esempio: la non comprensione della “triplice irradiazione” del Cristo ha portato a privilegiare, in due millenni, l’aspetto morale dell’insegnamento su quello esistenziale, generando mostri.
È accaduto perché l’insegnamento, la testimonianza e il sentire del Maestro non sono stati interiorizzati e compresi adeguatamente e non si è avuto infine il coraggio e l’ardire di lasciarli morire: se il seme non muore nella sua forma, non genera altra vita.
Il seme contiene in sé il principio della vita, è attraverso quello che genera altra vita. Ma se tu il seme lo vuoi conservare nella sua forma di seme e non permetti che il principio vitale che contiene sviluppi i suoi processi di morte e trasformazione della forma, allora blocchi il processo.
Se vesti lo zen con la cultura giapponese, lo uccidi, o come minimo lo nascondi, lo occulti alla comprensione.
Se ossessivamente generi interpretazione e strutturazione dell’insegnamento e della natura del Cristo, lo rendi irraggiungibile, astratto, un artefatto inservibile e sterile per le coscienze.
La frequentazione ossessiva della parola del Maestro, non illuminata dalla sua morte e resurrezione nell’intimo nostro, produce irrealtà.
Il Cristo deve morire nell’intimo del discepolo e rinascere in una forma a lui sconosciuta, questo dice il segno di Emmaus quando i discepoli lo riconoscono non dalla forma, ma dalla sostanza.
Cos’è dunque la forma che deve morire? L’immagine che ci siamo creati del Cristo, quella che una cultura ha creato non comprendendolo fino in fondo e comunque relativizzandolo all’interno dei propri limiti di interpretazione e di comprensione.
Per scorgere la radice dell’esperienza e dell’insegnamento del Cristo nei vangeli sinottici, devi fare un lavoro di discernimento considerevole: per vederlo nella massa di norme erette dalle chiese nel tempo, devi apprestarti ad un’opera titanica.
In sé, nella trasmissione storica attraverso le scritture, il seme originale è contenuto ed è anche in bella vista per coloro che sanno intenderlo: sono poche ed elementari cose che emergono chiare e luminose nella forma diretta, o in quella simbolica, dalla massa ridondante della narrazione condizionata dall’ambiente culturale in cui è nata, dalla funzione pedagogica cui doveva assolvere, dalla veste mitologica che si è trovata ad assumere.
Se fai morire la ridondanza dei concetti e della narrazione favolistica, ciò che emerge, ciò che si staglia, è il reale: ma il seme deve morire comunque, l’impianto della trasmissione così gelosamente custodito deve essere gettato nel compost affinché il principio vitale in esso contenuto possa liberarsi.
La persona deve chiudere il libro e vedere cosa rimane impresso nel suo interiore; deve vivere, sbagliare, cadere e rialzarsi, conoscersi, divenire consapevole e infine comprendere: a quel punto, verità del libro e verità della vita vibrano assieme, ma si è passati per la vita, non esistendo, non essendo reale altra via.
La vita ha passato al setaccio il libro, l’ha vagliato, ha separato il grano dalla pula.
Non è sbagliata l’esistenza di una tradizione in sé, è deleteria la gelosia con cui è custodita: in virtù di quella gelosia che trova le sue radici nella necessità di stabilità dell’umano, il processo del morire e del rinascere si arresta e con esso quello della vitalità del seme nella tradizione contenuto.
Ciò che è tramesso dalla tradizione deve fecondarsi con l’esperienza che germoglia nell’intimo di una persona, e questo è persino ovvio: il sentire trasmesso attraverso le parole e i modi della tradizione deve incontrare il sentire che vibra nella persona e che matura attraverso il processo del morire/rinascere senza fine. Questo è meno ovvio.
Se il sentire trasmesso non incontra il sentire personale e non entra organicamente nella dinamica morte/rinascita, l’adesione del discepolo è nella forma, ma non nella sostanza.
Se il sentire della persona è vivido, esso libera ed è liberato dal sentire trasmesso a patto che di questo la mente non abbia fatto un indolo.
Se il seme contenuto nella tradizione è rivestito di sovrastruttura, di morale, di legge, di dovere, di idealità è soffocato in una custodia mortifera.
La tradizione deve conservare le fonti e deve parlare al presente invitando a cogliere la parola di Dio nel contesto delle parole degli uomini: la tradizione deve trasmettere la sostanza del morire e del rinascere, quel principio innanzitutto senza il quale la Realtà non sarà mai veduta.
Se tutto, in una trasmissione, è parola di Dio, non puoi toccare più niente e niente può morire e rinascere: se invece tutto è raccolto del campo di Dio, puoi separare il grano dal loglio che l’umano vi ha aggiunto nel suo andare a tentoni con qualcosa che ancora non abbracciava con una comprensione piena.
Il sentire trasmesso attraverso le parole della tradizione deve incontrare il sentire che vibra nella persona” dicevo poco sopra:  invitando la persona a focalizzarsi sulla conoscenza, sulla consapevolezza, sulla comprensione la si mette nelle condizioni di porre al centro il suo sentire acquisito e quello da acquisire, la si pone al centro dell’atto creativo, le si affidano le sue responsabilità, le si trasmette la consapevolezza dell’imparare sbagliando ed osando.
Accecandola con la luce dell’esempio ideale, caricandola come un animale da soma di doveri e di precetti e di senso del peccato, si soffoca il suo sentire e si eccita la sua mente riempendola di facezie, conducendola infine a schiantarsi contro il muro della propria inadeguatezza e del rifiuto di sé.
Il sentire conosciuto e acquisito attraverso le esperienze lasciate fluire secondo le possibilità di ciascuno, incoraggiate e sostenute perché comprese come insostituibili, incontra i sentire affini di tutti i tempi e di tutte le latitudini anch’essi maturati attraverso le esperienze e i limiti: l’insegnamento trasmesso attraverso la tradizione viene allora scoperto come vicino, prossimo al proprio sperimentare, evidente, la sua verità viene celebrata perché nel proprio intimo la si è già scoperta ed è sostenuta dai vissuti, su di essi incardinata.
A questo punto l’insegnamento trasmesso illumina il sentire e questo l’insegnamento.
Questo incontro fecondo, questa risonanza è stata resa possibile dal processo della conoscenza, consapevolezza, comprensione: senza di esso l’insegnamento trasmesso cade tra i rovi o tra le pietraie.
Cade nella sterilità perché si è avuta la presunzione di trasmetterlo come verità compiuta, piuttosto che come processo del sentire e del vivere: quando le menti, con la loro definizione, con i loro recinti e con le loro presunte verità, prendono il sopravvento la fluidità e creatività del sentire viene soffocata, il messaggio si offusca, la direzione diviene incerta, la nota di fondo del sentire fatica a farsi sentire.
Dove cade a mio parere il cristiano? Nel non porre al centro il cammino della conoscenza.
Nel mettersi addosso immani fardelli morali ed ideali che svaniscono al sole come le nebbie di primavera nelle vite di tutti quelli che si guardano allo specchio.
C’è un vizio di fondo nella visione cristiana così come si è sviluppata nella storia: la separazione tra l’uomo e il suo Creatore, una frattura che il Cristo ha composto nella sua esistenza ma che il cristianesimo non ha saputo trattare finendo infine per non parlare più del Cristo e della sua realizzazione, ma di sé e della propria narrazione.
A me sembra che, per quanto assurdo possa sembrare, non pochi cristiani ben poco hanno compreso del Cristo, pur dichiarandosi suoi discepoli: non hanno compreso che, nella Sua vita feriale ed ordinaria, incarnava l’unità e dunque indicava la via a tutti, possibile ad ogni essere, universale, accessibile a chi conosce sé e va oltre l’identificazione con sé. Non era straordinario, era normale come sono normali tutti coloro che hanno compreso l’unitarietà dell’esistente. 
Nel momento in cui hanno fatto del Cristo che realizzava in sé la condizione unitaria d’esistere accessibile a qualsiasi umano pronto nel sentire, un Dio, hanno perduto di vista l’essenziale: la sua vita incarnava la “triplice irradiazione” e a quel livello andava assunta,  interpretata, incarnata, lasciata morire e rinascere in forma nuova nel proprio intimo.
L’averne fatto un dio l’ha espulso dalla vita ordinaria di tutti: quello che Lui era, è stato possibile a Lui, ma non lo è a noi che rimaniamo separati ed espulsi dal Tutto-Uno in attesa dell’avvento del Regno.
Lui ha realizzato il Regno-in-sé e lo ha annunciato a noi come possibilità per ciascuno, reale, attuale, dimensione interiore accessibile a chi è maturo per quella raccolta: la discussione, tra cristiani, sulla natura e realtà del Regno è avvilente, avvolta nella foschia delle loro menti, avulsa dal sentire. Inascoltabile.
Più in generale, non aver posto al centro il cammino di unificazione personale come fatto interiore derivante dalla conoscenza-consapevolezza-comprensione, ha mantenuta aperta la frattura tra l’umano e il Divino rendendo astratta e irraggiungibile la prassi del Cristo: non comprendendo come realizzare in sé il regno di Dio, si è finito per dare eccessiva importanza alle opere, o alla tradizione, o alla parola, e questo quando la chiave era semplice, sotto gli occhi.
La conoscenza è la chiave, perché solo da essa deriva la comprensione e dunque quell’ampliamento del sentire che produce l’unificazione, la comprensione unitaria di sé e del tutto: non fondandosi sulla conoscenza e sull’unificazione interiore, si è scelta la via di espungere Dio e il Cristo dalle nostre vite e di farli rientrare in forma astratta, o sotto la sembianza di norma, di credenza, di religione.
Dal Cristo incarnato nella comprensione intima di ciascuno, al Cristo della religione c’è di mezzo l’abisso della non conoscenza.
Il principio divino e universale è divenuto recinto di alcuni, sottoposto a infinite speculazioni, umiliato dalle regole, oscurato alla vista interiore quanto offerto ossessivamente a quella esteriore.
Il mondo è di Dio e lo svela: l’umano che mai è stato altro da Dio, vivendo conosce la propria originale natura.
A me sembra che di questo parlino il Cristo e tutti coloro che ci hanno preceduti nell’esperienza di unificazione; mi sembra anche che questo sia molto chiaro, molto evidente e anche molto logico se solo si osserva la vita con gli occhi adeguati, e non abbia bisogno di costrutti mitologici, apparati giuridici e morali per essere approcciato: basta conoscere, divenire consapevoli, comprendere; la Realtà si mostra da sé, non ha bisogno di intermediari, ma di insegnanti certamente si, la loro utilità non è in discussione. Se hanno compreso quello che insegnano.
Se poi si vuole discutere dell’importanza del mito per le menti bambine, discutiamone pure, ma non tutte le menti sono bambine e non tutte lo rimangono per sempre: il mito ha la sua funzione ma, come tutte le cose, deve poter essere lasciato andare quando ha assolto alla sua funzione, iniziando allora a trattare il proprio prossimo da adulto e fornendogli il cibo adeguato.
Ma se non abbiamo ancora conosciuto il cibo adatto a noi, di quale cibo parliamo per il nostro prossimo?


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11 commenti su “Appunti sulla trasmissione della comprensione spirituale”

  1. Grazie Roberto. Leggendo ho capito più di quello che mi sembrava all’inizio. Ma cos’è che deve morire esattamente? L’ideale morale che ci è stato trasmesso e che non tiene conto del mio sentire attuale? Io non posso che partire da lì del resto e l’insegnamento del Cristo diventa vita solo se coniugato con ciò che sono adesso…

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  2. Condivido. Materia molto vasta. Alcuni flash:
    Gesù nel vangelo di Giovanni dice che è necessario, nonché un bene per i discepoli, che se ne vada altrimenti non potrà venire lo Spirito. Quello Spirito che condurrà alla Verità piena, alla conoscenza – comprensione di ciò che Cristo non ha potuto dire perché i discepoli non erano in grado di portarne il peso.
    Nell’Apocalisse si parla di un libro, simbolo della storia e dei criteri per interpretarla. Giovanni viene invitato non a leggerlo ma a divorarlo! Dopo averlo fatto potrà profetizzare. Lui diventa quel libro. Il libro in quanto forma scompare, lo spirito del libro vive in lui. Il processo è dinamico, non statico come in un rapporto con una Legge.
    Guardando alle chiese mi sembra di vedere degli organismi bambini e come tali bisognosi di sorreggersi con impalcature identitarie forti. Il processo di destrutturazione è appannaggio di un’esigua minoranza ma progressivamente si estenderà, ineluttabilmente. La Chiesa cattolica ha ripreso a leggere la Bibbia da 50 anni, un periodo storico brevissimo: da lì e dai fatti della Storia (il Reale) che sempre più metteranno in scacco forme sclerotizzate farà irruzione lo Spirito che porterà una evoluzione delle coscienze dei cristiani. I tempi non sono in grado di prevederli (non ho finito di digerire il libro)

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  3.  Il fatto che Gesù pur sapendo scrivere non abbia scritto una parola di proprio pugno parla già della necessità di non ingessarsi in concetti e forme fisse. Meno male, pensate in che pasticcio si trovano nell’islam in cui Maometto ha ricevuto la parola addirittura quasi sotto dettatura. Magari una qualche Guida comunicava con lui come è accaduto per quelli del Cerchio Ifior o Cerchio Firenze? Sarebbe interessante sapere se le nostre Guide hanno detto qualcosa in proposito.
     La riflessione che hai fatto sul tema caro Roberto è fonte di preziosi stimoli e conoscenza. Te ne ringrazio molto.

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