La comunità interiore e quella esteriore: una riflessione

Molti anni fa, quando iniziammo questa esperienza in campagna, prima di strutturarci come eremo, venivano spesso a cena persone, così spesso che, col tempo, divenne faticoso ospitarle.
Notammo, con Catia, che a fronte dei nostri inviti non corrispondevano mai, o quasi mai, inviti di altri rivolti a noi: non c’era reciprocità perché, in fondo, non c’era una condivisione di sentire sufficientemente ampia.
A fronte del nostro invito motivato da un sincero desiderio di stare con l’altro, con la conseguente assunzione di responsabilità che questo comportava, da parte dell’altro c’era certamente il desiderio di condividere la nostra presenza e magari il piacere di stare in un posto in campagna, ma non l’assunzione della responsabilità conseguente.
Dietro l’assenza di reciprocità stava dunque una differenza di sentire che riverberava in una differenza di coinvolgimento responsabile.
Mi osserverete forse che, se noi operavamo nella gratuità, non avrebbe dovuto importarci se gli altri ci reinvitavano o meno: vi rispondo di provare voi a fare cene per anni ogni sabato sera senza avere il giusto alleggerimento prodotto dall’invito altrui.
Con questo esempio voglio rappresentare plasticamente e praticamente l’operare della comunità interiore e di quella esteriore:
– il senso della comunità interiore ci conduceva a invitare coloro con cui c’era una affinità, i quali accettavano l’invito in virtù della stessa affinità;
– la comunità esteriore è quella che ha marcato la sua mancanza nel momento in cui non c’è stata reciprocità.
Come dicevo, la reciprocità è mancata perché c’era un vizio nell’intenzione: ad un’intenzione chiara corrispondeva un’intenzione spuria.
Comprendete da voi che la divisione tra comunità interiore e comunità esteriore è solo un espediente comunicativo, in realtà l’essere comunità è un’esperienza unitaria che sorge dall’intenzione, diviene azione e riconduce i frutti di questa all’intenzione.
L’espediente linguistico ci serve comunque per marcare i contrasti: in un ambiente spirituale è facile, relativamente, realizzare una comunione interiore, più difficile dar vita a quella esteriore, ovvero, all’intenzione e all’esperienza di una relativa unità, non consegue l’azione sempre necessaria e coerente.
Le persone meditano assieme, pregano assieme, ascoltano assieme parole di vita e nel mentre sperimentano questo si allenta la presa della loro identità ed il senso di separazione, ma, non appena escono da quella condizione particolare, si mostra il limite della loro comprensione perché non riescono a dar seguito, attraverso mille piccoli e irrilevanti gesti, allo sperimentato.
Questo ci dice che lo sperimentato è ancora in gestazione e del cammino è ancora necessario prima che la comprensione sia completa e divenga senza sforzo alcuno intenzione/pensiero/affetto-emozione/azione.
Esiste dunque una comunione interiore che genera una comunità interiore, una condivisione di sentire?
Si, indiscutibilmente: il sentire complessivo delle persone può vibrare all’unisono in certe situazioni e può produrre una rarefazione tale dei limiti incarnativi da costituire, in quei momenti, vera comunione e vera comunità interiore.
Trascorsa l’esperienza, torna ad affiorare il sentire relativo con cui le persone si confrontano in questa incarnazione, il non compreso torna ad essere in risalto e ciò che era possibile sotto l’irradiazione del sentire complessivo non lo è più alla luce del sentire relativo di questa vita (vi ricordo che in una incarnazione viene portato ad esperienza dalla coscienza solo una frazione del sentire complessivo conseguito nel complesso delle vite).
Le coscienze hanno condotto i loro veicoli in un luogo, sotto ad una guida o ad una influenza, per loro necessità evolutive: in quella situazione a volte vibrano all’unisono sorrette dal sentire più ampio che le costituisce, altre volte si distaccano e differenziano influenzate dalle non comprensioni che le condizionano e che sono lì per lavorare.
La comunità è il luogo dove tutto questo accade, si dichiara e diviene evidente alla consapevolezza: la famiglia è una comunità, l’ambiente di lavoro è una comunità, una nazione è una comunità, un cammino spirituale pure, naturalmente.
Dobbiamo intenderci: in una comunità c’è un certo numero di sentire affini e un altro numero che magari affini non sono ma da quelle affinità possono trarre vantaggio: una comunità è sempre un ecosistema complesso ed occorre avere la capacità di discernere e di comprendere la funzione esistenziale di ciascuno.
Non c’è comunità se non ci sono un certo numero di sentire affini e non c’è vero apprendimento se non c’è relazione tra sentire differenti: quando quella persona che palesemente non ha compreso si impatta nella mia vita, quanto sono costretto ad interrogarmi e a cambiare?
C’è un percorso/lavoro esistenziale che si fa grazie alle persone a noi affini nel sentire e c’è un altro lavoro, di altra natura che si fa quando nelle nostre scene compaiono sentire apparentemente non affini: vi ricordo che mai sapremo chi è, o non è, a noi affine nel sentire.
Tutti hanno una funzione, fatti o persone che siano: non sappiamo da cosa i fatti siano generati, né da cosa le persone siano mosse, conosciamo solo le nostre reazioni di fronte al loro giungere e su quelle lavoriamo, quello conta, quello ci deve bastare.
Quando due sentire di eguale ampiezza condividono le scene dell’ordinario, il loro convivere è facile e il tasso di resistenza delle identità basso; quando sentire diversi si confrontano la fatica aumenta e con essa la possibilità di ragliare e di imparare dal raglio.
La persona che ha compreso sa che tutto è comunità, perché tutto è Uno e vive la tensione interna alle relazioni come fattore rivelante la natura dei sentire: tutto svela sé, il compreso e il non compreso.
La comunità è come un’orchestra: lo spartito è la comunità interiore, gli orchestrali e i loro strumenti la comunità esteriore. Il direttore è presente fino a quando l’orchestra non ha interiorizzato lo spartito e non è stata in grado di governare sapientemente i limiti e i talenti degli orchestrali e dei loro strumenti, poi scompare.
In famiglia, sul lavoro, nella via, operiamo mossi da un’intenzione chiara in direzione dell’orchestra senza direttore? OE6.5


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9 commenti su “La comunità interiore e quella esteriore: una riflessione”

  1. Un po’ in ritardo. Ma quando ho letto il post, qualche giorno fa, mi sono riservata un po’ di tempo per ruminarlo in attesa di un momento di relax, per commentarlo. A questa domanda non ero riuscita a rispondere, non ne avevo colto il significato. Pertanto grazie Robi per aver chiarito i miei dubbi. Penso sia difficile far coincidere le due cose fintanto che si rimane attaccati alle proprie abitudini. Più mi dispongo al cambiamento, a lasciare rassicuranti abitudini, che possono essere d’ostacolo ad un percorso di unità, più mi sarà facile vivere la comunità interiore ed esteriore in maniera coerente e convergente. Mi sono interroga tante volte su questo tema, anche se non nei termini con cui l’hai posta ora, ma ad oggi fatico ancora a realizzare questo obiettivo. Grazie ancora per questo ulteriore possibilità di riflessione.

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  2. Diverse volte ho sperimentato la comunione interiore ma, come bene descrivi tu, il limite della comprensione non porta a dare seguito ai fatti, alle azioni. Il limite personale è chiarissimo e ogni volta che si palesa nasce un senso di disagio, di fastidio…

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  3. Grazie, esposizione molto chiara che aiuta ad interrogarsi.
    Tra i tanti elementi di riflessione ne evidenzio uno:
    “La persona che ha compreso sa che tutto è comunità…”

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  4. Ciò che dici mi è chiaro e comprendo cosa intendi quando parli di assenza di RECIPROCITA’ nelle relazioni o in una comunità.
    Grazie a questo tuo post ho capito la domanda circa la differenza tra Comunità interiore e Comunità esteriore.
    In altri tipi di “comunità” (quelle del cerchio di amicizie) sono spesso colei che organizza incontri, che invita, che promuove iniziative e che promuove la condivisione di tempi ed esperienze. Mi piace tanto farlo….ma proprio in questi giorni mi stavo chiedendo se è il caso che io faccia un passo indietro, che limiti questa mia voglia/bisogno di organizzare e che osservi ciò che accade…magari nessuno mi chiamerà…oppure qualcuno organizzerà al posto mio… dovrei provare…

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  5. Questo post mi tocca molto da vicino ed ha chiarito diversi aspetti che non avevo ancora messo in luce riguardo a diverse esperienze di tentativi di comunità esteriore organizzata con persone più o meno affini. Il tema della comunità è a me molto caro e queste parole sono come un faro che illumina il cammino verso la comunione. Grazie.

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