Desiderare, attendersi, sperare nella preghiera

Dice Enzo Bianchi nel commento al vangelo domenicale: “Dio non ha bisogno della nostra insistente preghiera, ma siamo noi ad averne bisogno per imprimerla nelle fibre della nostra mente e del nostro corpo, per aumentare il nostro desiderio e la nostra attesa, per dire a noi stessi la nostra speranza.”
Il commento ha alcuni passaggi interessanti, ma questo è critico, soprattutto se posto in relazione con il fine ultimo del pregare, la venuta dello Spirito.
Qual’è l’aspetto critico di questa impostazione? L’accento posto sul desiderio, sull’attesa, sulla speranza.
Nella sostanza Enzo dice che il nostro pregare, quando è insistito, serve a noi, non a Dio, perché così determina e consolida il nostro protrarci verso, il nostro aprirci: su questo nulla da eccepire, ma se il protoraci verso e l’aprirci sono inficiati di desiderio, attesa e speranza l’ingombro di noi è massimo, e minimo diventa lo spazio dell’accogliere privo del nostro esserci.
Il pregare non può essere occupare il campo da parte dell’orante, ma lo sgomberarlo da sé: desiderio, attesa e speranza sono disposizioni umane che ingombrano di noi la relazione con l’oltre-noi. Questo Enzo lo sa bene.
La preghiera insistita la si può leggere non come come l’incalzare, Dio o noi stessi non importa, ma come quella corrente che attraversa la consapevolezza con i suoi contenuti e pian piano erode l’esserci del nostro protagonismo e crea uno spazio, un de-tenderci, un aprire un varco, un farsi avanti di un silenzio di noi ed, infine, un tacere: in quel tacere il seme del discernimento e della comprensione possono sorgere, nel linguaggio cristiano può manifestarsi lo Spirito.
Nel silenzio di noi questo accade: il desiderio, l’attesa e la speranza dalle quali eravamo partiti, hanno visto il loro scacco e l’affermarsi di qualcosa di molto diverso e privo di quelle disposizioni iniziali: il frutto del dono [dello Spirito] eventualmente ricevuto, è comunque la conseguenza di quel desiderare-attendersi-sperare iniziali?
No, potevamo sgomberare da subito il campo dai nostri bisogni e affidarci alla preghiera sapendo che essa nulla se ne fa di noi e la porta che apre ci conduce molto oltre la nostra pretesa. Se partiamo da lì, dal bisogno, è perché ancora non ci è chiaro il processo.
Questo sgomberare il campo, è ciò che fa una persona che siede in zazen: deliberatamente va incontro alla propria irrilevanza e non porta nella pratica il groviglio dei suoi bisogni, ma li disconnette fin dall’inizio e a prescindere.
Questo fa chi recita un mantra, o qualsiasi preghiera basata sul ritmo e la ripetizione.
Questo fa la persona che non ha alcuna pratica religiosa, ma appoggia semplicemente sul cammino di conoscenza, consapevolezza, comprensione: vede e lascia andare.
Sono utili nella via interiore il desiderio, l’attesa e la speranza? Si, all’inizio, quando ancora non si è compreso che il viaggio non ha bisogno di essi.
Poco dopo, lungo il sentiero, l’incontro con il deserto, con le pieghe del proprio essere, con la realtà del divenire e dell’essere ci focalizzano sulla fiducia, la vera pietra d’angolo del nostro procedere: allora si che ci diviene evidente la natura del “pane quotidiano” e la consapevolezza che questo c’è ogni giorno, senza alcun bisogno di chiederlo.


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4 commenti su “Desiderare, attendersi, sperare nella preghiera”

  1. Non è però che rischiamo di entrare di nuovo nel dualismo corpo-spirito? Parrebbe per certi versi rideterminarsi quella spaccatura che tanto perniciosa è stata ed è nell’ambiente cristiano, tra corpo e spirito. Il corpo è una roba che ci impiccia, di cui liberarsi, sede e fonte di brame e di desideri peccaminosi direbbe certa letteratura cristiana.
    In realtà so benissimo che nel nostro cammino di sentiero contemplativo non è affatto così, perché anzi il corpo o meglio, i corpi, sono la piattaforma di base, la sede dei sensi, da cui tutto ci è reso accessibile. Per un attimo però qualcosa in me ha rievocato lo spettro della separazione tra ciò che è cattivo e che pertanto deve farsi da parte e la parte buona, ossia quella spirituale. Possibile che desideri, speranze, preghiere… assomiglino a spazzatura da rimuovere? Che cavolo ci facciamo su questa terra visto che di queste cose siamo impregnati se non addirittura costituiti? Solo fatica, togliere, separare? Esercitare virtù?
    So benissimo che il nostro cammino è invece basato proprio sull’integrare, sull’accogliere senza timore il nostro limite-maestro, sul lasciar fluire le energie vitali ma…. perdonami a volte vado in confusione.

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    • Le parole risvegliano fantasmi: rileggi attentamente il post, Samuele, vedrai che non c’è nessuna negazione dell emozioni e dei desideri, c’è l’evidenza sostenuta dall’esperienza che siamo destinati ad abbandonarle, come tutto il resto.
      Fino ad un certo punto appoggiamo sul desiderio, da un punto in poi non più: questo non significa che il desiderio è sbagliato, significa che finisce..

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  2. Io sento che nessun tipo di preghiera né nessuna forma di meditazione è sufficiente se non affronto la paura di esprimere con autenticità il mio quotidiano vivere, mi accorgo che ogni momento della giornata che sto vivendo mi interroga sul rispetto e sul tradimento di me stessa, e il mio stato d’animo varia in relazione alle azioni che faccio o non faccio.

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