La radice del lamento

Sono passato ieri davanti alla stazione di Marotta, una località turistica della costa, e ho visto che nelle due misere aiuole l’erba era alta un metro e sono rimasto basito.
Ho telefonato a mio fratello, che a Marotta abita e che ha ancora, a differenza di me, alcuni contatti nell’amministrazione comunale, per chiedergli se poteva fare qualcosa.
Avrei potuto brontolare, lamentarmi, ingiuriare gli amministratori disattenti, e forse anche incapaci, e chiuderla lì. Ma non è nella mia natura, se c’è un problema, tendo a farmene carico.
Definirei lamento la tendenza, tanto diffusa in questo paese, a parlare, polemizzare, ingiuriare senza muovere un dito, senza assumersi alcuna responsabilità: il problema è causato dall’altro e l’altro è il colpevole.
Non credo che le cose stiano così. Nella coppia, in famiglia, in una comunità, il colpevole non è mai l’altro, certamente non solo l’altro.
In una società il problema non è solo in chi governa, ma anche nel governato che non controlla.
In una coppia, la qualità del rapporto che si instaura è di entrambi e l’unica possibilità di un reale cambiamento è che ciascuno cambi se stesso.
Ci piace dire: “E’ colpa tua!” e continuare a lamentarci dell’altro senza porci l’unica domanda intelligente possibile: “Siccome l’altro non posso costringerlo a cambiare, posso cambiare io?”
Ma, ahimè, siamo così oscurati dalla pretesa che la responsabilità sia dell’altro, che sia lui/lei che rovina il rapporto, che raramente, e spesso sempre troppo tardi, ci rimbocchiamo le maniche e lavoriamo il nostro.
Questo è, secondo me, il lamentarsi. Un piccolo, angusto mondo abitato da vittime.
In ambito “spirituale” le cose non stanno diversamente: ci si lamenta dei compagni di viaggio, dell’insegnamento, dell’insegnante. Ci si lamenta perché l’illusione che abbiamo coltivato in merito al nostro cammino e ai suoi artefici, si mostra nella sua illusorietà e porta ad evidenza il limite di ciascuno.
Il lamentoso dice: “Siccome hai manifestato il tuo limite, da te non ho più nulla da imparare!”
Non dice, il lamentoso: “Siccome hai manifestato il tuo limite, questo mi ha fatto vedere il mio e sul mio mi sono focalizzato!”
Il lamentoso ha bisogno di accusare, di sentirsi vittima. Il lamentoso vuole l’altro perfetto ed è molto indulgente rispetto a sé.
Un esempio: ho letto ieri alcune dichiarazioni del Dalai Lama sul tema dell’immigrazione in Europa.
Sono dichiarazione che il Dalai Lama aveva fatto altre volte, ma in questa occasione sono risultate particolarmente parziali e incomplete nell’analisi.
Il suo pensiero è più complesso di quello espresso nell’intervista al giornale tedesco e probabilmente non si è reso conto che le sue parole sarebbero inevitabilmente state strumentalizzate dall’opinione pubblica ostile agli immigrati.
Se andate a leggere le varie opinioni che ha espresso nel tempo, scoprirete che la sua visione è molto equilibrata e fondamentalmente basata sul principio che ognuno deve poter restare nel proprio paese di origine e perché questo accada è necessario compiere riforme radicali in tanti ambiti sia locali che globali.
Quando ho letto le sue parole, mi sono detto che forse se taceva era meglio. In seguito ho compreso che cosa mi infastidiva: l’esposizione incompleta di una visione, di un pensiero, di un respiro.
Perché mi infastidiva? Perché mi ricordava tutte le volte che io ho espresso in maniera limitata e parziale un mio pensiero o, peggio ancora, un mio sentire.
Le volte in cui, condizionato da un’emozione, o dalla pressione dell’interlocutore, o dalla gravità di una situazione, o da un pregiudizio mio, o da una comprensione incompleta, ho aperto la bocca dicendo, o compiendo gesti, parziali, limitati, condizionati da un vario grado di ottusità.
Osservando il Dalai Lama, in realtà non mi è venuto di accusarlo, di lamentarmi di lui ma, dopo lo sconcerto iniziale, ho cercato di comprendere il perché di quello sconcerto e ho visto che parlava di me, non di lui.
Naturalmente, non scrivo questo per esservi d’esempio, ma per ricordare a me e a voi il limite grande della protesta e del lamento quando non sono connessi alla consapevolezza di ciò che noi portiamo nel rapporto e alla necessità di cambiare innanzitutto quello che ci riguarda.
Quando abbiamo acquisito questa disposizione a cambiare innanzitutto noi stessi, ad interrogarci in primis sulle nostre responsabilità, la disposizione al lamento finisce e sorge una creatività operosa che, ponendo il nostro cambiamento al centro, cambia tutta la realtà, l’altro compreso.


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5 commenti su “La radice del lamento”

  1. Parole sante! Ora è tempo di passare dalle parole ai fatti…senza lamentarsi nemmeno del limite che portiamo in noi, guardandolo con obbiettività e benevolenza. Lo affermo per me per prima, perchè la prima reazione alle parole di Roby è stata quella di pensare a quante volte ci sono cascata…e a quante ancora ce ne saranno! Ma l’intento c’è, l’intento di osservare e mettere in moto quella parte di noi che propone e fa e non critica gratuitamente lamentandosi.

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  2. Credo che questa disposizione debba essere necessariamente l’inizio del percorso verso il “conosci te stesso”, ed è fondamentale averla sempre presente in ogni attimo del quotidiano partendo proprio dalle minuzie, per non rischiare di decantarla solo a parole….

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