Oltre la paura, il gioco

Dice Samuele nel suo commento a La gioia di andare oltre sé: “Come trasformare gli stimoli esterni che chiamano in causa il sé, in vita in cui dimenticarsi di sé e dedicarsi all’altro?”.
Essere chiamati in causa è la norma quando si vive: ci sentiamo coinvolti come identità e sentiamo che queste sono continuamente sotto esame, messe alla prova, giudicate e parametrate.
Siamo, normalmente, nella morsa del dover essere, del dover dimostrare: è possibile uscirne?
Si, quando si è compreso che ogni scena del quotidiano altro che non è che uno spezzone di un film dal nostro sentire prodotto.
Quando si ha chiaro che ogni accadimento è una possibilità di apprendimento e che la vita altro non è che ampliamento del sentire che ci crea e ci guida, allora si, possiamo rilassarci.
Se in gioco non c’è la nostra sopravvivenza come individui che hanno diritto ad uno spazio rappresentativo personale, allora possiamo appoggiare lo sguardo sull’altro: liberi dal timore per noi, possiamo finalmente vedere l’altro.
Ora, non si tratta di fare, l’umano è così condizionato da fattori di ogni genere che quando gli dici di scoprire l’altro, pensa subito a come aiutarlo: l’umano cresciuto in ambiente cattolico questo l’ha acquisito come riflesso condizionato.
C’è un errore, una non comprensione grave in questo fare, in questo aiutare: l’altro è affidato alla vita, è della vita, a lui pensa la vita, questa consapevolezza ci deve guidare e ci deve lasciare a mani basse osservando, ascoltando, contemplando, imparando dal semplice stare ad osservare.
La domanda può essere: chiede a me la vita di aiutare l’altro? Se ci sembra di sì, se dove aver ascoltato, osservato e tutto il resto, ci sembra di sì, allora ci attiveremo.
Il mondo non è fatto di gente che attende il nostro aiuto, questo è uno dei molti modi di una identità di rimettersi al centro, di mantenersi protagonista.
Come diceva Caterina nel post Imparare liberamente, i figli non ci chiedono sempre di essere nel mezzo.
Il genitore, il dirigente, il governante, l’operaio, l’insegnante debbono assolvere alla loro funzione creando la propria e l’altrui autonomia: mettiamo noi stessi e tutti attorno a noi nella condizione di provvedere a se stessi, senza che nessuno dipenda da nessun e senza che nessuno debba chiedere aiuto, a meno che non lo scelga.
Nella prassi corrente, per poter mantenere caste di privilegiati, creiamo masse immense di diseredati che hanno bisogno di aiuto per sopravvivere..
Se non abbiamo paura, se osserviamo ed ascoltiamo e impariamo, se appoggiamo lo sguardo sull’altro e lo vediamo come colui che dispiega il proprio essere, allora possiamo entrare in una nuova dimensione dell’esistere, quella fondata sul gioco.
Io, piccolo essere, dispiego il compreso e il non compreso; tu, piccolo essere fai altrettanto: la nostra relazione non comporta rischi per nessuno, dispiega forze, punti di vista, caratteri, disposizioni interiori, possibilità personali.
La nostra relazione in nessun modo ci limita; accadendo nell’assenza di paura e di calcolo egoistico, ci libera e ci satura della gioia del gioco.
Davide, si, ci vuole grande forza di volontà, ma non per andare verso l’altro, per scoprirlo, per imparare dalla relazione: non si tratta di volere scoprire l’altro e voler andare oltre sé; si tratta di vedere i molti condizionamenti che influiscono sul nostro pensare, sul nostra agire, sulle nostre intenzioni mentre sono all’opera e disconnetterli senza sosta, per tornare ad uno zero, ad una assenza di condizionamento.
In quello zero, l’altro e l’imparare sorgono come per incanto: la vita è per natura scoperta, meraviglia e gioco e questo è evidente quando non si è prigionieri del condizionamento.
Quindi la volontà si, ma per disconnettere il condizionamento, non per raggiungere qualsiasi obbiettivo, per quanto spirituale sia.
Poi, naturalmente, ci sono anche situazioni in cui la volontà va usata per perseguire un obbiettivo, ma non è questo il caso.


Newsletter “Il Sentiero del mese”

 

Print Friendly, PDF & Email

4 commenti su “Oltre la paura, il gioco”

  1. “A lui pensa la vita”. Forse la vita pensa attraverso noi? Cioè voglio dire, noi forse siamo strumenti affinché la vita possa aiutare…

    Rispondi
  2. Spesso, appunto, si pensa che aprirsi verso l’altro vuol dire andare verso l’altro, dimenticando che l’altro è la porta di accesso verso verso la nostra nudità.

    Rispondi
  3. Grazie Roberto.

    “Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
    e questa siepe, che da tanta parte
    dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
    Ma sedendo e mirando, interminati
    spazi di là da quella, e sovrumani
    silenzi, e profondissima quiete
    io nel pensier mi fingo, ove per poco
    il cor non si spaura. E come il vento
    odo stormir tra queste piante, io quello
    infinito silenzio a questa voce
    vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
    e le morte stagioni, e la presente
    e viva, e il suon di lei. Così tra questa
    immensità s’annega il pensier mio:
    e il naufragar m’è dolce in questo mare.”

    Rispondi

Lascia un commento