L’uomo che viene salvato, che si salva da solo, ed il “ciò che è”

Prendo spunto dalla lettura di un articolo di Enzo Bianchi apparso su La Stampa del 3 maggio 2009 scritto in risposta ad alcune tesi di Vito Mancuso.
Non voglio parlare né delle tesi di Bianchi, né di quelle di Mancuso, ma di un solo, particolare aspetto. Leggendo le parole di Bianchi, il cui pensiero in passato ho frequentato abbastanza, ciò che mi colpisce è questa convinzione, molto radicata mi sembra, che interpreta Dio e l’uomo come due entità separate; di necessità, si trova poi a dover enfatizzare la figura del mediatore escatologico, colui che sana la frattura e ricongiunge ciò che è stato separato: il Cristo.
Questa è la visione dei cristiani, da sempre e non posso, naturalmente, che accoglierla.
Nella mia piccola mente l’idea, il concetto, di questa separazione non è mai riuscito a radicare: ero un ragazzo e mi sembrava abbastanza chiaro, pur nella confusione dell’età, che se c’era qualcuno che si era separato questo era l’uomo con le visioni che coltivava (e coltiva) di sé e della vita; mi sembrava oggetto d’indagine l’idea che Dio non potesse essere altro dall’uomo e dal creato, che la non-unità fosse solo una incapacità nostra di cogliere la trama unitaria della realtà.
Nel tempo mi è diventato chiaro che attraverso la conoscenza della natura di questa separazione, di questa lontananza-cesura unilaterale,  le distanze si potessero ridurre; col passare degli anni, con le esperienze, con la compagnia di un certo tasso di dolore, sono giunto alla conclusione che non c’è alcuna separazione e mi è divenuto chiaro anche un paradosso: non vedo alcun Dio e alcun uomo nei termini in cui l’uomo pensa, intende, interpreta sia l’uno che l’altro.
Vedo l’essere senza qualificazione in ogni aspetto di ciò che è.
La semplice, e necessariamente transitoria, conclusione alla quale sono giunto è che l’uomo non viene salvato, né si salva da sé: la vita, gli eventi, le esperienze, le relazioni, i processi dei quali l’uomo non è vittima ma artefice, sono costituiti e intessuti in modo tale da plasmarne la comprensione e da far germogliare in esso l’esperienza dell’unità.
Esperienza inequivocabile quanto relativa alla comprensione conseguita.
E’ il gesto del vivere che libera l’uomo, il vivere in sé, consapevole o inconsapevole che sia. Vivere realizza l’unità, libera l’uomo dalla percezione della separazione e lo conduce là dove è sempre stato e da cui mai si è separato: nell’unità del tutto.
Vivere basta, è in sé il tutto, l’unità che accade.
Mi rendo conto che queste affermazioni necessiterebbero di molti approfondimenti sulla natura dell’uomo e sull’essere della vita, ma non è questa la sede.
In conclusione a me sembra, e posso sbagliare, che quando l’esperienza dell’unità è germogliata nel quotidiano, l’uomo non riesce più a parlare di separazione, né di salvezza, né di Cristo, né di Dio, né tanto meno di sé.

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2 commenti su “L’uomo che viene salvato, che si salva da solo, ed il “ciò che è””

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