La spinta che ci induce alla relazione

Sempre mi riempie di stupore l’uomo che si mostra, che porta se stesso e si offre all’altro.
Nel gesto di porsi in relazione portando un pensiero, un punto di vista, un affetto, prende corpo un principio fondamentale per ciascuno di noi: senza l’altro, senza l’offrirci, senza l’accogliere, la nostra vita non assume né forma, né sostanza.
Nel dare il via alla rappresentazione della relazione e nell’assumersene la responsabilità – consapevolmente o inconsapevolmente – inizia un processo creativo profondamente trasformativo.
Naturalmente, ogni cosa che sorge da noi, ogni relazione cui diamo luogo, è limitata, ma questo non è un problema: l’intenzione che conduce alla relazione è già atto d’amore, è già uscire da “io” per scoprire un “tu”, anche se quel “tu” lo si vuol usare.
Il fine strumentale parla del nostro egoismo, del lavoro interiore che ci attende.
Il vivere la relazione parla di una spinta che precede il nostro egoismo: quella pressione ad incontrare l’altro, a proporsi, è la condizione stessa perché noi si possa scoprire e portare a manifestazione ciò che abbiamo compreso e ciò che non è compreso affatto.
La spinta alla relazione è uno degli aspetti più intimi e profondi della vita: è uno dei volti dell’amore, una delle declinazioni dell’essere dell’Assoluto che tutto conduce all’incontro e alla fusione.
La relazione è un “miracolo” in sé, per questo ogni volta che accade, mi meraviglia.
Con l’ampliarsi del sentire quella che oggi chiamiamo relazione domani sperimenteremo come fusione, una condizione molto diversa.

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2 commenti su “La spinta che ci induce alla relazione”

  1. Vorrei richiedere un piccolo chiarimento.

    “[…] l’intenzione che conduce alla relazione è già atto d’amore, è già uscire da “io” per scoprire un “tu”, anche se quel “tu” lo si vuol usare”

    Ma l’intenzione di porsi in relazione è SEMPRE un “atto d’amore”? E se l’intenzione è SEMPRE un “atto d’amore”, che cos’è che fa sì che quest’atto a livello concreto si manifesti come odio, violenza o sopruso sull’altro in alcuni casi?

    Detto diversamente, è solo l’identificazione con l'”io” che alcune volte determina una relazione ‘cattiva’ con il “tu” oppure possono esserci vere e proprie intenzioni ‘cattive’?

    Forse è la domanda sbagliata, forse dovrei specificare meglio i livelli (si parla di “atto d’amore” con riferimento alla dimensione dell’intenzione e non a quella dell’attuazione di questa intenzione); perdonami, ma sentivo il bisogno di farla.

    Inoltre vorrei sottolineare che ho messo volontariamente la parola ‘cattivo’ – perché viene dal latino “captivus” che significa “chi è fatto prigioniero, chi vive in servitù”… e forse il “tu” non può essere reso prigioniero o schiavo se non ci fosse chi lo imprigioni, chi lo schiavizzi – un “io”… Ma non saprei – semplici annotazioni.
    Grazie.

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    • Dove nasce l’intenzione?
      1-dalla dimensione che precede la coscienza;
      2-dalla coscienza;
      3-dall’identità.
      Da che cosa è condizionata l’intenzione?
      1-dai limiti del sentire di coscienza (dalle comprensioni limitate della coscienza);
      2-dai fantasmi che aleggiano nell’identità: bisogni, nevrosi, ecc.
      C’è un’intenzione primaria che si impatta con la coscienza e subisce una trasformazione a seconda di ciò che la coscienza ha compreso o non compreso.
      La derivante si impatta poi con i piani dell’identità (mentale, emotivo, fisico) e con ciò di cui sono pervasi.
      La risultante sarà che l’azione è condizionata dall’intenzione primaria (sempre portatrice d’amore), dall’intenzione secondaria (alterata dalle comprensioni/non-comprensioni della coscienza) e dall’intenzione terziaria (i fantasmi dell’identità).

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