Quindi nella quotidianità tendiamo a ritenere oggettivo quel che è soggettivo in virtù dei limiti che ci definiscono come esseri incarnati; vediamo cose che se potessimo astrarci dalla nostra composizione e percezione attuale coglieremmo diversamente.
Il grado di maggiore o minore consapevolezza non toglie nulla all’accadere dell’apprendimento e alle sue modalità. Ma se “siamo vissuti” dall’intenzione della coscienza che espande il proprio sentire, se la vita è rappresentazione della coscienza e noi ne siamo più o meno consapevoli, in che misura il processo di vivere/apprendere è di nostra responsabilità e in che misura è determinato dal fatto che la coscienza ha bisogno di fare quelle determinate esperienze e non altre, condizionata da esperienze e comprensioni antecedenti? Determinismo e libero arbitrio come si collocano in questa descrizione della vita?
Raccolta fondi per le iniziative editoriali del Sentiero contemplativo
A- “In che misura il vivere/apprendere è di nostra responsabilità?“
Se per ‘nostra’ si intende l’auto-interpretazione che deriva dalla relazione tra il corpo mentale, emotivo, fisico e la coscienza, quel sentirsi d’essere e d’esistere dell’immagine nello specchio, ebbene la responsabilità dell’identità è relativa essendo esecuzione di un principio che la pervade e la precede.
A noi come identità sembra di avere una presa sulla nostra vita e anche una possibilità di scelta: certo possiamo scegliere come attuare una certa intenzione, ma non se attuarla.
Posso andare in un certo posto in auto, in treno, a piedi, in bicicletta: questa è una scelta dell’identità e a seconda di quello che sceglie il cammino sarà agevole o faticoso.
Non posso scegliere dove andare, questo è un dato che non è sotto il controllo dell’identità ma è determinato dalla coscienza. Non ho quindi la responsabilità di dove vado ma del come ci vado e dell’eventuale tasso di dolore/fatica.
È evidente che non è possibile scindere il regista dall’attore essendo i due una unità inscindibile: il sentirci portatori di un nome alimenta questa separazione ed è all’origine di molto del nostro arrancare. Se avessimo la comprensione di essere coscienza, affronteremmo le scene della vita con più partecipazione e più leggerezza in quanto consapevoli che quelle scene sono ciò che è necessario ai processi interiori del sentire.
B-“Condizionata da esperienze e comprensioni antecedenti”?
Siamo condizionati nel presente dal sentire acquisito ma, soprattutto, dal sentire che non abbiamo ancora indagato, né acquisito.
Vivere è affrontare il non compreso, la coscienza si misura con quanto non le appartiene come sentire: il compreso è la piattaforma su cui danza il nuovo non ancora integrato.
Credo che guardando in questi termini la realtà dell’umano non si possa parlare né di determinismo, né di libero arbitrio ma di una condizione dove ciascuna cosa accade finalizzata a un ampliamento del sentire.
Al centro c’è il sentire, non l’identità: in quest’ottica interpretativa si sciolgono molti dubbi esistenziali. Dal libro L’Essenziale.
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NB: il testo che compare in questi post in alcuni passaggi differisce sostanzialmente dal contenuto del libro, questo perché, nei dieci anni trascorsi, molte cose abbiamo approfondito e compreso meglio.
D’altra parte, oggi non riusciremmo a esprimerci con la semplicità di ieri mentre il nostro obbiettivo, nel riprendere questi contenuti, è proprio quello di dare a chi ci legge un testo semplice, per un approccio di base al Sentiero contemplativo.
Non l’identità al centro ma il sentire…cambio di prospettiva rilevantissimo.
Un encomiabile tentativo di fornire risposte a domande assai delicate che tuttavia, se affidato a menti contorte come la mia, incapaci di sorvolare su alcuni aspetti e di limitarsi a cogliere il senso del messaggio che sta tra le righe, va a creare ulteriori domande. Per farla breve direi che oggi come oggi, non credo che abbiamo nemmeno la possibilità di scegliere se prendere il treno o la bici. Non essendoci frattura fra identità e coscienza, credo che non ci sia nessuna entità che si possa mettere di traverso rispetto ai moti della coscienza. D’altronde andare in treno o in bici apre ad esperienze ben diverse, non trascurabili e affatto riducibili ad un semplice “modo” per raggiungere una “meta”, una sorta di spazio neutro tra il momento della partenza e quello dell’arrivo, come se fossero solo questi due quelli che contano. La meta, sappiamo che è il singolo passo e non credo di poter scegliere se fare esperienza di un sellino e di una fatica considerevole piuttosto che di una poltrona del treno, a “mio” insindacabile giudizio. Faccio esattamente ciò che scaturisce dall’input della coscienza che attraversa i suoi corpi e porta la coscienza stessa, unico regista e protagonista, unico soggetto in campo, a decidere quale mezzo prendere. Ritengo, in fede.
La coscienza invia fasci di dati molto compositi che riguardano l’obbiettivo che vuole conseguire, la comprensione cui aspira, pertanto esistono diverse opzioni applicative e vanno a realizzarsi quelle possibili all’identità in un dato momento e quelle praticabili in un certo ambiente e all’interno di date relazioni. La richiesta akasica non è un diktat, è ricca di possibilità e sfumature che lasciano ampio margine a una discrezionalità, ma non tanto alla discrezionalità di un soggetto, quanto alla discrezionalità applicativa condotta dalla stessa coscienza per mezzo dei suoi veicoli e delle relazioni nell’ambiente.