Il credere non è aderire a qualcosa o a qualcuno, è un’esperienza

Giovanni 4,48-53

48 Perciò Gesù gli disse: «Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete». 49 L’ufficiale del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50 Gesù gli disse: «Va’, tuo figlio vive».

Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detta, e se ne andò. 51 E mentre già stava scendendo, i suoi servi gli andarono incontro e gli dissero: «Tuo figlio vive». 52 Allora egli domandò loro a che ora avesse cominciato a stare meglio; ed essi gli risposero: «Ieri, all’ora settima, la febbre lo lasciò». 53 Così il padre riconobbe che la guarigione era avvenuta nell’ora che Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive»; e credette lui con tutta la sua casa.

«Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete», eppure l’ufficiale crede a Gesù sulla parola; certo, gli chiede un segno perché è un padre disperato, ma quando Gesù gli dice che il figlio vive, l’ufficiale aderisce a quella Parola.

Mi interessa qui trattare di questa adesione, la quale può anche essere mossa da un bisogno, non è questo il centro della questione: credo perché in me si attivano forze che travalicano il mio dubbio, la mia ansia, la mia paura.
Credo perché faccio un’esperienza inequivocabile di qualcosa che sorge nell’interiore, e che cambia il mio rapporto con il reale.

Il credere è:
– conoscere per esperienza diretta una dimensione d’esistenza, un Esistere;
– l’essere consapevoli che è essa che genera la nostra vita: è la sorgente, è il fiume, è il mare;
– l’aver compreso che ciò che ci accade è il nostro pane, necessario ogni giorno per essere Uno con quella sorgente, con quel fiume, con quel mare.

Dunque mi interessa l’adesione a quella esperienza, meglio sarebbe dire: l’essere quell’esperienza.
Essa non è credere in qualcosa, o in qualcuno: è sapere che ogni atto e fatto del vivere è il Dio che prende la forma del divenire, un grado di sentire che assume manifestazione, un passo tra molti passi, o, semplicemente, un fotogramma di un eterno presente.

Che io legga la vita nell’ottica dell’essere o del divenire, non ha importanza per il credere, esso non è un moto della mente, è un atto, uno stato del sentire, una sua condizione:
il sentire conosce Dio e trasmette ai suoi corpi l’irradiazione di questa conoscenza e consapevolezza.

Il credere non è dunque un mio gesto rivolto all’Assoluto, una adesione a Lui rivolta, ma è il farsi evidente dell’Assoluto attraverso il sentire e i suoi corpi transitori.
Il credere è un’esperienza nei corpi, un’impressione definita ed inequivocabile nei corpi.

Il credere e la fede procedono assieme, il primo è una declinazione della seconda, sono un’unica archetipa esperienza: un fuoco è acceso da sempre nel nostro interiore, È il nostro interiore; un’evidenza bruciante ci alimenta, ci accompagna, ci sostiene, ci illumina, ci trasforma, ci infonde la vivida consapevolezza di Quel-che-è (il credere) e del Suo nutrirci senza fine (la fede).

Quel fuoco, pur essendo sempre presente, non sempre sale alla nostra consapevolezza: in una certa stagione della nostra vita esso si manifesta in virtù di innumerevoli fattori dei quali ho parlato in altri post, allora ciò-che-già-era diviene l’evidente bussola delle nostre vite, la sostanza del nostro essere ed esistere.

Nel vuoto di ogni credenza, sperimentiamo Dio.
Nella lontananza da ogni religione, siamo-fede.

Arde il fuoco dell’Essere di Dio:
siamo la legna del Suo sentire,
la combustione della Sua consapevolezza.
Quando, stanchi e saturi di noi stessi,
lasciamo affiorare la natura autentica che ci costituisce,
allora il Reale diviene evidente:
non si può affermare che crediamo,
siamo aspetto del Dio vivente,
respiro del Suo respiro;
fuoco del Suo fuoco,
cenere della Sua cenere.


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19 commenti su “Il credere non è aderire a qualcosa o a qualcuno, è un’esperienza”

  1. Credere è “conoscere per esperienza diretta una dimensione d’esistenza”, “…aver compreso che ciò che ci accade è il nostro pane..”. Risuonano in me!

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  2. Alta la vibrazione percepita.
    Credere come ” il farsi evidente dell’Assoluto attraverso il sentire e i suoi corpi transitori.
    Il credere è un’esperienza nei corpi, un’impressione definita ed inequivocabile nei corpi”.
    Si potrebbe dire : l’Assoluto che percepisce se stesso nel sentire e nell’ esperienza dei corpi.

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  3. Credere come stato del sentire.
    È una definizione che mi aiuta a fare pace con una parola da me non troppo amata. Credenze e fede non accompagnati da conoscenza e consapevolezza hanno fatto disastri nel nostro passato!

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  4. La natura di queste argomentazioni è assolutamente una rivelazione e apre ad una rivoluzione interiore, vale a dire cambia completamente l’ottica con cui comunementesi intendono il credere e la fede.

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  5. Credere non è quindi un atto di volontà – decido di credere – non è un esercizio di autoconvincimento. Non ci si può sforzare di credere, salvo circoscrivere quell’esperienza al mentale, all’idea che poi si trasforma facilmente in ideologia. Credere non è nemmeno affar nostro per certi versi. Infatti si dice che la fede è un dono ma detta in questo modo banale lascia spazio ad equivoci e all’idea che ci possano essere i più ed i meno fortunati. Quelli che hanno e quelli che non hanno il dono. Nel nostro paradigma credere è una condizione, una scoperta, figlia di numerose esperienze dell’individuo. Grazie.

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  6. Uso spesso l’espressione “credo che…” mi rendo conto ora di alcune implicazioni che mi sfuggivano, proverò ad indagare più a fondo.

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  7. Stamattina mi raccontavano di un poeta vivente di cui non ricordo il nome che dice “finché vivo sarò voce per la poesia”. E che cos’è la poesia se non un gesto compiuto nella sua essenza? Un bicchiere d’acqua versato, un modo di camminare, un colore intonato, una parola taciuta

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