La narrazione soggettiva del reale e i limiti nel discernimento

Scrivevo in un Tweet del 28 marzo:
A noi non interessa conoscere e comprendere il reale, ci interessa averne un’opinione.
Anche il contemplante ha una opinione del reale, ma prontamente la abbandona, pena il non conoscerlo e il non comprenderlo.

Questo atteggiamento è in gran parte inevitabile, immersi come siamo nell’illusoria soggettività delle nostre vite. D’altra parte, la stessa realtà, senza fine, cerca di aprirci gli occhi su ciò che esiste oltre quell’illusoria soggettività.
Cosa esiste? I fatti, gli accadimenti, i simboli: situazioni che sono-quel-che-sono, non come sembrano a noi.
Come si supera questa distanza tra il quel-che-è e la lettura soggettiva?
Avendo la capacita interiore di rinunciare alla personale narrazione del reale ed affidandosi alla contemplazione di esso.
Quella rinuncia non può essere il frutto di uno sforzo: quando essa è autentica, sorge spontaneamente e lascia affluire un complesso di dati che parlano del reale e che vengono osservati e contemplati non al fine di elaborare una narrazione, ma di poterne discernere la natura e lo scopo.

Faccio un esempio: se per strada incontro un cane, debbo discernere se è aggressivo o meno, comprendere, non solo capire le sue intenzioni.
Se vado dietro alla mia narrazione personale, dico: “Poverino, l’hanno abbandonato!”
Se osservo i fatti, le sensazioni, il suo comportamento, il mio istinto, estraggo una serie di dati che mi aiutano a discernere, e lo fanno perché dalla narrazione personale sono passato alla osservazione e contemplazione del reale.

Un altro esempio: ieri sera ho visto L’ultima alba con Bruce Willis e Monica Bellucci, un film d’avventura ambientato in Africa durante una guerra civile. Crudo.
Bruce Willis in un film di guerra ci sta, la Bellucci è come i cavoli a merenda: non è credibile.
Troppo bella, troppo sensuale, imbalsamata nella mimica, irreale nella recitazione: in un film del genere, completamente fuori posto.
Voi direte: sono tue opinioni, il produttore, il regista, il responsabile del cast l’hanno pensata diversamente.
Infatti è un’opinione mia, loro hanno sviluppato un’altra narrazione.
Ma la domanda è: la mia narrazione da cosa deriva?
Io non ho gli interessi in gioco che ha il produttore del film, dunque non sono identificato e non ho necessità di costruirmi una narrazione di quello che vado finanziando: semplicemente osservo.
Certo, mentre osservo, vedo lo scorrere delle opinioni che in me si formano e si dissolvono, e vedo quelle che permangono: alla fine si configura nel mio interiore una impressione complessiva, che non è un giudizio, è solo una impressione e come tale non ha bisogno di essere registrata e archiviata, può comodamente essere lasciata andare, ovvero subire il destino di tutto ciò che viene contemplato.
Il produttore, il regista hanno un procedere completamente differente, devono creare una narrazione per sé, per la loro equipe, per lo spettatore futuro: i fattori soggettivi sono preponderanti, l’identificazione non può non coprire l’intero processo.

In questi giorni mi è capitato di segnalare all’organismo comunitario che ho fondato, un paio di simboli che per me hanno un certo valore, ma per i componenti di quell’organismo non lo hanno, o non lo colgono.
Due letture molto diverse della realtà: naturalmente, quando molti altri leggono la realtà in modo diverso dal tuo, ti viene il dubbio che il tuo modo sia errato.
Dubbio più che sano, perché ti impedisce l’orgoglio e la contrapposizione.

Le persone di questo organismo vedono dei fatti e li interpretano: io vedo dei fatti e li interpreto. La letture divergono sostanzialmente e l’impasse è sostanziale.
Nessuno può alzarsi e dire: la mia lettura è quella giusta!
Come si risolve la situazione? Osservando spassionatamente i fatti e le loro conseguenze, contemplando, dunque.
Non affidandosi, prevalentemente, all’analisi cognitiva, non cercando di rimanere coerenti con la propria narrazione, ma mettendo in campo il primo di tutti i fattori di discernimento: il sentire.
Tutti hanno accesso al sentire? Direi di sì, in vario grado, con diversi gradi di difficoltà.
Non solo: ogni persona ha un grado di sentire differente, dunque una possibilità di decodifica dei fatti differente.
Ne consegue che l’accesso al sentire è soggettivo e l’ampiezza del sentire stesso è soggettiva; l’opinione, basata su dati cognitivi ed emotivi è soggettiva, il contesto in cui i dati precipitano, le vite personali, è anch’esso altamente soggettivo.

Il sentire racchiude in sé la capacità di legare i singoli fatti e di leggerli unitariamente: coglie la valenza simbolica di ogni fatto, la compara con quella degli altri fatti e ne trae una immagine complessiva ed unitaria: sente il fatto e l’insieme dei fatti.

Perché questo possa accadere, è necessario che i corpi mentale ed astrale forniscano sufficienti dati: è necessario che l’Io della persona sia dotato di sufficiente elasticità e creatività per fornire i dati, o per non occultarli.
Per fornire i dati è necessaria attenzione e presenza; per non occultarli è indispensabile una raffinata conoscenza di sé.
Dove conduce questo ragionare?
Ad una evidenza: innumerevoli sono i fattori in gioco, irrisolvibile il conflitto di interpretazione del reale basandosi sulla soggettività del percepito e dell’interpretato.
A meno che non sia il sentire a prevalere.
Ma il sentire non è eguale, le comprensioni sono differenti e dunque anche le decodifiche dei fatti e la loro sintesi finale lo sono.


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11 commenti su “La narrazione soggettiva del reale e i limiti nel discernimento”

  1. “Cosa esiste? I fatti, gli accadimenti, i simboli: situazioni che sono-quel-che-sono, non come sembrano a noi.
    Come si supera questa distanza tra il quel-che-è e la lettura soggettiva?
    Avendo la capacita interiore di rinunciare alla personale narrazione del reale ed affidandosi alla contemplazione di esso.”….
    “… è necessario che i corpi mentale ed astrale forniscano sufficienti dati: è necessario che l’Io della persona sia dotato di sufficiente elasticità e creatività per fornire i dati, o per non occultarli. Per fornire i dati è necessaria attenzione e presenza; per non occultarli è indispensabile una raffinata conoscenza di sé.”

    Questa x me la sintesi estrema di questo insegnamento…per cui…..al lavoro!

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  2. “A noi non interessa conoscere e comprendere il reale, ci interessa averne un’opinione.
    Anche il contemplante ha una opinione del reale, ma prontamente la abbandona, pena il non conoscerlo e il non comprenderlo.”
    (premetto che il mio “vocabolario” potrebbe non essere “adeguato”)
    Questa frase mi ha fatto ricordare il mio impegno di qualche settimana fa di distinguere la valutazione di un certo fatto dal giudizio, cioè mi sono impegnata ad osservare quando una mia valutazione “neutra” diventava giudizio, portando con sè un carico di emotività derivante dalla mia identità.
    E’ stato interessante vedere come, di fronte ad un fatto, nasceva una mia opinione/valutazione e come -subito- la mia identità interveniva traducendo quella valutazione in giudizio. Allora disconnettevo, tornavo a guardare il fatto, a prestare attenzione alle parole di chi parlava, a guardare colui che avevo davanti, escludendo “altro”.
    Quando la cosa mi riusciva, il risultato era una sensazione di centratura, di pace e di … compassione.
    Vedo comunque che la valutazione lascia velocemente il posto al giudizio e che giudicare è in certo qual modo “gratificante”.
    Credo che il succo di ciò che ho scritto sta nella frase che segue:
    “…Come si supera questa distanza tra il quel-che-è e la lettura soggettiva?
    Avendo la capacità interiore di rinunciare alla personale narrazione del reale ed affidandosi alla contemplazione di esso….”.

    Cercherò qualche post sul giudizio, di sicuro ci sarà!

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  3. Le prime parole in grassetto “rinunciare alla personale narrazione del reale ed affidandosi alla contemplazione di esso” hanno un avuto un certo impatto su di me. Nel senso che mi è sembrato di coglierne il senso. La lettura del resto del post, come spesso accade, mi risulta molto ostica. Pur tornando continuamente indietro non riesco a seguire i passaggi logici del discorso. È come se fossero tutti separati l uno dall altro. In altre parole perdo il filo, al punto che per ricordare da dove si era partiti devo tornare a rileggere l inizio del post (le parole in grassetto che dicevo). La lettura dei commenti, che costituiscono ulteriori diramazioni del discorso, complicano ulteriormente le cose. So benissimo che rileggere, cosa che oltretutto faccio già quando leggo la prima volta, come spiegavo sopra, non serve praticamente a nulla.
    Alla fine mi chiedo a che cosa mi serve fare tanta fatica. Probabilmente a me basta leggere la sintesi iniziale (ammesso ovviamente che l abbia capita). Non riesco a non pensare all invito di Catia dell altro giorno in cui diceva di leggere i tweet e magari non i post (ragion per cui sto cercando di ripristinare le notifiche di Tweeter che non so perché da tempo non mi funzionano più). Quella modalità è sicuramente per me più congeniale.
    Poi ogni tanto c’è anche il post che scorre, ma quando mi accorgo che sto entrando in una selva, forse è meglio che d ora in poi lasci perdere.
    Altrimenti è come se continuando a leggere si oscurasse sempre più l intuizione iniziale. Ovviamente tra pochi secondi non ricorderò più nulla di quella intuizione, ma credo che questo non sia importante. L importante è che quelle poche parole siano in qualche modo risuonate per un momento. Almeno credo.

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    • A Marco.
      ciò di cui parli, narra di una mente satura.
      Inutile insistere: detendersi, lasciar andare, sgomberare il campo.
      in un altro memento, in un’altra stagione ci sarà la possibilità di tornare e provare ancora.
      Chiaro che il contenuto breve e sintetico, su di una mente satura, produce un effetto migliore del contenuto lungo e ragionato per cui non ci sono energie da spendere.
      Il tutto si configura come un meccanismo di difesa.

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  4. Per rimanere in ambito culinario, questo post ci sta come il cacio sui maccheroni !
    Mi pare di avere colto i riferimenti, ma non credo di avere quella spontaneità a cui ti riferisci , per rinunciare alla personale narrazione del reale dando spazio alla contemplazione. Comunque grazie per queste parole e per la puntualità con le quali arrivano.

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  5. Leggo questo post dopo aver assistito alla ribellione del mio io per la non comprensione degli ultimi fatti. Constato che il sentire non mi aiuta nella decodifica oggettiva e mi dispiace sinceramente non riuscire a superare questa impasse. Devo procedere con la disidentificazione lasciando scorrere e posando lo sguardo su altro così che il marasma si cheti e possano emergere dati e sensibilità che non facciano più ragliare l’asino.

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  6. La comprensione di questo post è molto importante per il nostro procedere comune e la relazione nell’organismo. Da tenere sempre presente. Grazie.

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  7. Credo anch’io che la questione non debba essere ridotta al piano identitario ma accolta nel sentire.
    Se poi, come nel mio caso, il sentire non è sufficiente a comprendere, beh, direi pazienza. Coltiviamo la fiducia e andiamo avanti con la consapevolezza del limite e col desiderio di lavorarlo.

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  8. Concordo con questa lettura delle dinamiche che ci muovono. In merito al giudizio in cui più forte si alza il nostro raglio credo che possa essere contenuto, limitato ai fatti e non alla persona che lo ha generato, ma non del tutto eliminato perché fa parte del nostro modo di decodificare le esperienze e di interagire con esse.

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  9. Molto appropriato questo post! In un certa misura sono le mie stesse riflessioni di questi giorni. L’osservazione del reale richiede neutralità, ma questo implica un passo indietro dell’io. Scarsa identificazioni nei fatti e vediamo quanto questo sia difficile. Poi ci sono sensibilità differenti, c’è chi regge senza troppi problemi l’osservazione che gli viene fatta e chi invece la vive come un ostacolo. Chi ha delle responsabilità maggiori, ha il compito di contemperare i vari livelli, consapevoli che il procedere insieme non significa essere tutti uguali. E mai, mai dovremmo cadere nel giudizio, mentre a volte, a me pare, che questo accada.

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    • A Natascia e Maria
      In merito al giudizio, una precisazione.
      Le identità si fanno delle opinioni e le esprimono: queste sono le opinioni, l’espressione delle quali è fondamentale altrimenti senza opinione non c’è nemmeno relazione, o questa diviene completamente imbrigliata.
      Va da sé che una opinione sia temporanea e limitata: è la natura sua e dell’identità che l’esprime.
      Una opinione diviene un giudizio quando è sentenziosa e costante nel tempo, ovvero quando non ha il carattere della temporaneità e quando, in quanto sentenza, non si è disposti a metterla in discussione, a superarla.
      Scrivo questa precisazione, perché è inevitabile che in discussioni come queste correnti, ci sia chi calca un po’ la mano e usa toni ed espressioni troppo categoriche: è un limite delle soggettività, ma questo non necessariamente sta ad indicare che nell’intimo di quella persona vi sia una disposizione sentenziante.

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