Procedere velocemente in una via spirituale?

Un caro amico mi suggerisce: “Andiamo avanti velocemente, non facciamoci rallentare!”
E’ un’affermazione interessante, che parla dell’interiore di quell’amico, ma che qui prenderò a pretesto per affrontare il duplice tema dell’andare avanti e del rallentare.
Andare avanti: procedere speditamente nella via interiore. Cos’è l’andare avanti, come si fa, cosa lo ostacola?
Un gruppo di persone che vuole procedere speditamente nella via, come fa?
Si tratta di vedersi spesso, di fare pratiche assieme che permettano di realizzare determinati stati interiori di chiarezza, di consapevolezza, di unità?
Non è sbagliato: le persone stanno assieme, praticano una meditazione, discutono di qualcosa, chiarificano dei dubbi e, mentre tutto questo accade si disidentificano dalle loro passioni, dai loro bisogni, dalla moltitudine dei desideri.
Durante l’incontro risiedono nell’Essere e quella condizione portano a casa. Passano i giorni e, inevitabilmente, vengono riassorbiti nelle identificazioni con il loro personale circo interiore.
Arriva, per fortuna un altro incontro del gruppo, ci si posiziona di nuovo sull’essenziale e si va avanti così nel tempo.
Nel mentre, incontro dopo incontro, esperienza di vita dopo esperienza, caduta dopo caduta, acquisizione dopo acquisizione le identificazioni si fanno meno pressanti e la strada più diritta e più agevole.
Questo è quello che stiamo facendo, questa è la didattica del Sentiero.
Possiamo accelerare? Quello che accade in un gruppo, in un cammino interiore dipende dai suoi componenti: la loro atmosfera vibratoria crea l’ambiente vibratorio generale. Le loro comprensioni agevolano, o rallentano, lo stare e il divenire.
Nel tempo, la vita aggrega le persone che possono fare un determinato cammino e quello si differenzia per rispondere alle esigenze dei singoli: allora si forma quella aggregazione in cui si manifesta un certo sentire, e quell’altra aggregazione in cui il sentire è di grado diverso.
Si formano organismi: è naturale, e questo va assecondato.
Con alcuni si possono fare delle esperienze e trattare delle questioni, con altri si può fare altro.
Le persone non sono stabili in una via, solo una minoranza lo è e procede dedita nel tempo: la gran parte va e viene producendo nell’organismo instabilità di vario grado che vengono compensate dal numero di coloro che sono stabili, se quel numero è rilevante. Altrimenti si paga pegno.
Tutto questo è fisiologico, è la vita interna alle comunità dei ricercatori, dei monaci, di coloro che cercano l’unità.
Ma questo è solo un aspetto della realtà, non è la realtà.
Qual’è la realtà? Ciascuno ha un proprio sentire, comprensioni acquisite, altre da acquisire: vive per comprendere, anche se non lo sa.
Una via è come un cartello stradale; una via è un’officina esistenziale, ma è solo una parte del giorno: poi si torna a casa.
Tra le mura domestiche il compreso e il non compreso danzano, come è naturale che sia: la via illumina il quotidiano e questo corrobora, o ammorba, la via.
Il reale stato della persona si manifesta nell’ordinario, nel quotidiano: essa può frequentare il più evoluto dei gruppi e beneficiare del miglior insegnamento e del più ampio sentire ma, quando torna a casa, fa i conti con sé stessa.
In quest’ottica, cosa vuol dire accelerare? Vuol dire vivere stati interiori d’essere quando si è in gruppo, durante una sessione e poi riuscire ad incarnare quel sentire nei piccoli gesti del quotidiano, dentro la routine, nella relazione con il partner, con i figli, con i problemi? Bene, questo è perfetto.
Quel quotidiano nutrirà la via e questa alimenterà senza fine il quotidiano.
Ma può accadere anche dell’altro: che si viva ampia dimensione d’essere durante un gruppo e poi, a casa, passato l’effetto, la centratura, l’ampiezza del sentire si affievolisce e noi, nella routine, facciamo sentire alto il raglio. Anche questo è perfetto, e ci indica il cammino, ci dice che c’è uno iato, una frattura tra ciò che potenzialmente potremmo e ciò che in realtà possiamo.
Dentro questo iato va trovata la soluzione e il suo superamento è ciò che permette l’accelerazione: tra il potremmo e il possiamo deve essere costruito un ponte, allora fluiremo più rapidamente.
Altrimenti il nostro cammino, la nostra via, altro non saranno che consolazione: siamo bloccati nell’evoluzione del sentire perché nel quotidiano non riusciamo a sciogliere alcuni nodi, ci rifugiamo nella via e nel gruppo che ci permettono di essere finalmente liberi da quel limite che a casa ci zavorra.
Questo non va bene, è evidente. La via è divenuta una nicchia, un insieme di stati privilegiati, mentre invece l’unico senso di una via è che ci indica la direzione e ci scaraventa nel quotidiano.
Noi abbiamo una certa fretta, il tempo non gioca a nostro favore, l’orizzonte non è più così lontano: vogliamo realizzare, come quelli che hanno investito in azioni.
Dimentichiamo che il tempo è un’invenzione della nostra ansia: il nostro disagio esistenziale ci chiede di raccogliere risultati, ed ha ragione, ma dove germogliano i risultati?
Dato per assodato che il nostro sentire acquisito può divenire vita, la via è la contemplazione del sentire, o la vita che lo incarna?
Un gruppo affiatato, può contemplare il sentire che condivide e che lo sostanzia, lo tiene assieme e lo alimenta: bene, ma poi ognuno deve tornare a casa propria e lì fare la verifica della solidità di quel sentire, altrimenti accade un’altra cosa, perniciosa: quel sentire sperimentato assieme, era in realtà, in parte consistente, dovuto all’irradiazione di chi conduceva e all’efficacia del gruppo, tutti ne hanno beneficiato ma, nei fatti del quotidiano, non appartiene ai singoli, è la risultante dell’atmosfera collettiva.
Allora il problema è di nuovo sottolineato: c’è una frattura, proclamo e sperimento qualcosa ma, nel feriale, non riesco a sostenerlo.
Il lavoro è sullo iato, non sul procedere del gruppo, o della via.


Se hai domande sulla vita, o sulla via, qui puoi porle.
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