Perché interpretare sé ed il proprio cammino esistenziale attenua il dolore?

Questa è la domanda di Alessandro nel commento al post di ieri.
Se io mi interpreto come vittima, uso cioè nella mia vita il modello interpretativo comune dove c’è il carnefice e la vittima, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male, di fronte alle ingiustizie che mi sembra di subire reagirò con la protesta, la rabbia, il risentimento. 
Nel tempo queste emozioni avveleneranno la mia vita e, quel considerarmi vittima di qualcuno o di qualcosa, le alimenterà in un circuito senza fine.
Avrò generato dolore che non sarà sorto dalla vita in sé, ma da come l’ho interpretata, letta, intesa.
Se invece di usare il modello interpretativo della vittima avessi usato quello delle opportunità, le conseguenze sarebbero state altre:
-avrei letto l’accadere come possibilità di conoscenza, consapevolezza, comprensione;
-avrei considerato l’altro come colui che mi offre la possibilità di comprendere/cambiare.
Sarebbe sorto dolore? Un certo tasso inevitabilmente, magari il dolore per la propria inadeguatezza, ma comunque sarebbe stato un soffrire dentro un processo creativo, un pungolo a fare meglio. Niente di paragonabile alla rabbia, al risentimento, al vittimismo.

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