Il processo dell’abbandonare

Abbandonare significa lasciare fluire ciò che la vita ci manda, senza etichettare, giudicare, soppesare: un’azione, un’emozione, un pensiero sorgono e un attimo dopo già non sono più e in noi non rimane traccia. Allora la vita è veramente un fiume che scorre e in ogni attimo si manifesta “ciò che è” nel suo splendore.
Si giunge a questo stato interiore normalmente dopo un processo che ci vede all’inizio completamente assorbiti nel giudizio e nell’aspettativa: su ogni avvenimento, emozione pensiero abbiamo da dire la nostra e da apporre un’etichetta.
A questo livello possiamo cominciare innanzitutto con il divenire consapevoli del nostro atteggiamento: che cosa sto facendo, sentendo, pensando, ora, in questo preciso istante?
Di ciò che sta accadendo (azione, emozione o pensiero che sia) la mia mente dà una certa interpretazione. Chi è che interpreta, io o la mia mente? Questo è il primo, grande passo: superare l’identificazione io/mente, io non sono la mia mente, essa costituisce la mia identità, la so fondante del mio essere eppure posso non ridurmi ad essa. La mia mente interpreta sulla base del programma in uso in quel momento: se è distruttiva interpreterà ciascun evento come distruttivo o passibile di distruttività. Posso allora distinguermi dal giudizio della mia mente, posso dubitare della sua interpretazione.
L’atto del dubitare è il primo fondamentale evento che mi permette di avviarmi lungo la via dell’abbandono: dubito, dubito e dubito di ciò che recita la mente.
La mente dispone ciò che sta accadendo in relazione con il passato e con un probabile futuro; collega l’azione al pensiero e questo all’emozione, crea cioè un quadro di coerenze basate sulla logica e sulla ragionevolezza.
“E’ accaduta questa cosa perché un anno fa è accaduta quell’altra e perché spinto da quella emozione ho creduto che la scelta migliore fosse fare in quel modo”.
La mente, a questo punto del percorso, non è ancora capace di disconnettere, lo diventerà più tardi; ora ha bisogno di coerenze e, scoprire le connessioni, la gratifica profondamente.
Ma io posso introdurre il dubbio in merito alle sue connessioni, ai suoi percorsi, posso minare la sua credibilità.
Posso disidentificarmi.
Allora il primo passo è vedersi, essere consapevole di che cosa sta accadendo in me in questo momento; il secondo passo è dubitare della mia mente; il terzo passo è disidentificarmi “io non sono la mia mente”; il quarto passo è non seguire la mente nelle sue logiche e nella costruzione delle sue coerenze.
Lungo la via tende a scomparire l’interesse per ciò che la mente recita, siamo sempre meno affascinati e sedotti dai concetti e sempre più attenti e disponibili alla realtà così come essa si presenta a noi: tendiamo ad aderire al reale piuttosto che a pensarlo.
Questo disinteresse per i concetti spesso si associa ad un disinteresse più vasto che riguarda molti aspetti della nostra vita: è come se le cose che abbiamo sempre pensato, fatto o sentito, ad un certo punto non ci interessino più, non ci coinvolgano. Sorge allora e torna ciclicamente in varie stagioni della nostra vita quello che chiamiamo deserto.
Qui non discuterò del deserto ma del perdere interesse per i costrutti mentali: da questa perdita di interesse può avere avvio la pratica della disconnessione: un pensiero è solo un pensiero, un’emozione è solo un’emozione, un’azione è solo un’azione. Non favorisco la strutturazione dell’esperienza ma la sua destrutturazione, lasciando che la mia coscienza sia focalizzata sull’evento presente: non mi interessa nè il prima nè il dopo, nè come si legano e perché quel pensiero a quel sentimento e a quell’ azione; non ho alcun interesse per i costrutti della mente, non sorge in me alcun interesse (non ho detto che non voglio provare alcun interesse, ho detto che non sorge alcun interesse).
Allora quel pensiero è solo un pensiero, non è nè positivo nè negativo, è e basta, e così è quell’emozione e quell’azione. Ogni evento, ogni cosa è ciò che è e nient’altro. Posso affermare questo, se e quando in me non sorge più l’impulso mentale a classificare, etichettare, comparare, in una parola a giudicare.
Più si restringe in me l’impulso a giudicare più si fa largo, più sorge, una quieta disposizione ad accogliere il presente così come esso si manifesta, senza aggiunte.
Sorge, dall’intimo di me, un modo nuovo, fresco, libero: sorge una sintonia con il canto della vita, un’adesione senza ma, senza perché, senza resistenze, senza entusiasmi.
Sorge un’abbandono.
Non per merito mio, non perché sono stato bravo e tenace: sorge come dono, come atto gratuito della vita che mi si consegna in un abbraccio privo di scopo.

10.5.2004

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