L’uomo del Medioevo ignora l’intimità. Egli non ha alcuna possibilità d’isolarsi. Tutti entrano nell’intimità dell’altro. In principio i monaci non dovevano soffrire di questo stato di cose. Ma, bisogna ricordarlo, essi vivono costantemente in una comunità piccola e stabile e sono in permanenza sottomessi ai duri doveri dell’osservanza e della disciplina claustrale.
Bisognava dunque evitare che tra di loro sorgessero delle tensioni o anche solo occasioni di tensione. Da qui l’importanza riservata dai consuetudinari alle belle maniere, si potrebbe quasi dire alle liturgie della tavola. Per il monaco, difatti, mangiare non è solamente nutrirsi. Mangiare è anche e soprattutto comunicare. E non si comunica nel disordine.
Il monaco arriverà dunque a tempo al refettorio: San Benedetto dedica tutto il capitolo 43 a ciò che bisogna fare con coloro che arrivano in ritardo «all’opera di Dio e alla tavola» (l’accostamento è caratteristico). Il monaco si laverà le mani all’ablutorium che si trova all’entrata del refettorio. Egli andrà a prendere posto davanti alla tavola e attenderà, nel più perfetto silenzio, l’arrivo dell’abate che deve pronunciare la preghiera. Il lettore comincia a leggere (ancora oggi un passo della Regola).
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Il monaco ascolta con la testa inchinata, le mani sotto la cocolla, senza fare il minimo gesto, neppure quello di spostare il tovagliolo prima di aver ascoltato il de Verbo Dei che da il segnale del pasto. Egli spezza il suo pane decenter, mangia honeste et religiose, in silenzio, senza osservare ciò che mangiano i vicini (ma, non so con quale strano artificio, egli deve segnalare discretamente che a loro manca qualche cosa).
Egli passerà loro il piatto o la caraffa di cui avranno bisogno (sarà attento a prevenire la loro domanda), senza parlare, con un sorriso o un gesto amabile; ringrazierà con un cenno della testa l’ebdomadario (l’addetto di quel giorno o di quel periodo, ndr) che lo serve; ascolterà la lettura con attenzione (generalmente il libro scelto è interessante e si apprendono così molte cose mangiando).
Finito il pasto si raccolgono con cura le posate e si depongono nel proprio piatto. Si restituisce il bicchiere usato, si copre il pane restante con una tovaglia, ecc.
Al segno dell’abate che pone termine alla lettura, il monaco si alza, si dispone davanti alla tavola, pronuncia una preghiera di ringraziamento, si inchina e si ritira, a meno che la comunità non si rechi processionalmente in Chiesa, cantando, al suono delle campane.
Tutto questo cerimoniale che risale a numerosi secoli fa e che non è affatto cambiato si svolge nel più grande silenzio (una abbazia non è solamente una punta avanzata della preghiera, ma anche un luogo dove regna il silenzio, un silenzio positivo che non è l’assenza di rumore, ma silenzio concreto, palpabile e buono come il pane fresco).
Niente conversazione. Coltelli e forchette devono essere usati in modo da fare il meno rumore possibile. Alcuni consuetudinari si spingono fino al punto di precisare che se vengono servite delle noci, il monaco non le romperà con i denti, ma le aprirà con il suo coltello. Altri scrivono che non è conveniente bere con la bocca piena o mangiare il pane prima di essere serviti e raccomandano di non sporcare o tagliuzzare la tovaglia. Il modo stesso di preparare la tavola varia secondo il ritmo dell’anno liturgico. Le tovaglie devono essere cambiate con la frequenza che è necessaria e i tovaglioli ogni settimana. E così via.
Sapendo in quale modo disordinato, sporco e rumoroso si svolgevano i pasti all’epoca, anche negli strati sociali più elevati della popolazione, si comprende lo stupore ammirato di coloro che erano ammessi a prendere parte, per alcuni giorni, alla vita e ai pasti dei monaci.
Pubblichiamo alcuni stralci del libro di Léo Moulin, La vita quotidiana secondo San Benedetto, Jaca Book editore, 1980.
Un vero rito il pasto.