Cosa chiedo ai miei fratelli e sorelle nel cammino

Chiedo loro di essere confidenti e sinceri gli uni con gli altri?
Chiedo loro di essere reciprocamente confidenti ed onesti?
Chiedo loro di essere radicalmente dediti?
Nessuna di queste cose chiedo loro.

La sincerità
Si comunica all’altro ciò che si ritiene opportuno comunicare, compatibilmente con la necessità di proteggere ambiti del proprio e dell’altrui interiore.
La confidenza e la sincerità sono dunque sempre relative, e di volta in volta mutano il loro grado a secondo dei nostri stati interiori, degli interlocutori, delle situazioni.
L’idealismo persegue la totalità e l’integrità, ma l’idealismo è figlio delle identità.
L’archetipo permanente della sincerità certo non fa sconti, ma noi siamo nel divenire e procediamo attraverso gli aggiustamenti degli archetipi transitori della sincerità.
Il nostro problema non è, per obbedire all’archetipo permanente, quello di coltivare l’ideale di una sincerità astratta, ma è quello di divenire consapevoli dei moti, degli oscuramenti, delle finzioni, delle ipocrisie lungo il cammino dell’essere guidati dall’archetipo permanente incontro all’Assoluto, l’unico sincero.
Non si tratta di forzarsi ad essere confidenti e sinceri con i propri fratelli e sorelle nel cammino, si tratta di vedere i propri nascondimenti e cercare di procedere oltre, fornendo ai nostri interlocutori il materiale necessario per approcciarsi a noi.
Fornire il materiale possibile per un approccio al nostro microcosmo, ripeto.
Se quel materiale è poco e reticente, proviamo allora a fare meglio: quando l’altro lamenta una nostra mancanza, ci interroghiamo, cerchiamo di comprendere il suo punto di vista e offriamo una possibilità nuova a noi e all’altro.
Liberi da ogni assoluto ideale, procediamo per tentativi, ma, allo stesso modo, stiamo ben attenti a non chiedere all’altro l’ideale che noi non perseguiamo.
Oggi posso svelare di me questo, domani quello: offrirò l’opportuno secondo me, non essendoci alcun opportuno ideale.
Non spetta all’altro accusarmi di reticenza nella condivisione, nell’impegno, nella sincerità, ma spetta all’altro farmi vedere il limite di cui non mi avvedo.

A cosa serve chiedere in continuazione sincerità all’altro?
Perché si ha bisogno di questo assoluto?
La nostra adesione ad un cammino è forse condizionata da quanto gli altri investono e da come lo fanno?
Il cammino è nostro, conta quanto investiamo noi, non quanto investono gli altri.
Certo, se in un organismo comunitario il minimo di relazione, di scambio, di compromissione personale non viene sperimentato, allora non si può nemmeno parlare di organismo e si ha tutto il diritto di protestare.
Ma se questa fosse la situazione, allora l’unica cosa da fare sarebbe quella di chiamare tutti i membri a raccolta e, ad uno ad uno, chiedere loro conto della situazione: dopo aver, innanzitutto, chiesto conto a se stessi.

Ma prima di giungere a questo, bisognerebbe chiedersi:

– perché dovrei aprirmi in grado rilevante con il mio prossimo, è una condizione importante e necessaria, è ciò di cui ho bisogno io, di cui necessita l’organismo comunitario di cui sono parte?

– O non è questo un surrogato: essendo, a volte, povera la connessione con i fratelli e le sorelle sul piano del sentire, allora cerco di compensare con la vicinanza affettiva e amicale?
E se fosse reale questa seconda ipotesi, perché è povera la connessione spirituale?
Forse perché è povera la mia vita spirituale?

L’onestà
Saremo onesti nel dichiarare la nostra disposizione: lo faremo con parole chiare e inequivocabili, senza abbellimenti e senza reticenze, nei limiti di quanto a noi possibile.
Impareremo a dire si e a dire no, in chiarezza, sapendo che anche l’onestà è relativa e lo è tanto più quanto si è centrati su se stessi; lo è tanto meno quanto si è capaci di dimenticarsi di sé.
L’onestà, come la sincerità è un processo, ciò che conta è seguire l’archetipo permanente senza raccontarsi storie, senza illudersi: l’archetipo permanente, nel divenire, è perseguito seguendo i mille step costituiti dagli archetipi transitori, ciascuno dei quali è un punto sulla linea dell’archetipo permanente.
“Sono onesto con te nei limiti delle mie comprensioni attuali, delle incomprensioni e ambiguità che mi condizionano, della volontà che riesco ad esprimere, dei condizionamenti che subisco dall’organismo comunitario e dall’ambiente in generale”.

La dedizione
La dedizione radicale è pericolosa come ogni radicalismo.
La dedizione feriale, coltivata e perseguita nel dubbio e nell’umiltà, è un grande dono a sé e agli altri.
La dedizione – non la confidenza, la sincerità e l’onestà – è la condizione prima e ultima necessaria ai fratelli e alle sorelle di un cammino spirituale.
La dedizione permette loro di perseverare:
– nella pratica spirituale,
– nella conoscenza di sé,
– nella ricerca di una presenza efficace nell’officina esistenziale, qualunque essa sia.

Un buon grado di dedizione significa un buon grado di pratica meditativa e contemplativa, una buona consapevolezza dei propri processi, una adeguata presenza feriale nell’organismo e nel lavoro dell’officina esistenziale.
La dedizione possibile è ciò che va perseguito, il resto viene da sé con il tempo e l’esperienza e, soprattutto, con le comprensioni.

Se si crede di alimentare una via spirituale pompando gli elementi di condivisione, di sincerità, di onestà, ahimè, si corre dietro ad una illusione: “lo spirito” crea le vie e le alimenta, è la dedizione allo “spirito” che ci cambia e ci permette di donare il nostro cambiamento, unico fattore efficace per gli altri.
Non saranno i richiami alla condivisione, alla sincerità e all’onestà quelli che smuoveranno qualcosa: sarà la testimonianza della propria vita nello spirito, il determinante.

(NB: in questo post non sono previsti i commenti: se le persone hanno qualcosa da dire, da dirsi, prendano l’iniziativa e si confrontino viso a viso. Se invitato, sarò disponibile a questo confronto).


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