L’esperienza del “quel che è”

Quel che è non è quel che vorrei; non è quel che è stato; non è quel che sarà.
Il quel che è diviene accessibile se la mente è vuota di aspettativa e di giudizio: l’aspettativa colora l’accadere; il giudizio lo confronta con quel che è stato, con il conosciuto in genere, o con quel che dovrebbe essere secondo i parametri di una morale, di una religione, di una filosofia o di una qualche credenza.
Se c’è libertà da tutto questo, sorge l’esperienza del quel che è.
Noi diciamo: un fatto è solo un fatto; se non è caricato di significati, se non è ricondotto a sé attraverso l’identificazione; se non deve per forza servire a qualcosa, è solo quel che è.
Un fatto è solo un fatto nella dimensione dell’essere, non in quella del divenire: in quest’ultima, un fatto è sempre interno ad un processo e questo ha un senso per il soggetto che lo vive. E così è giusto e opportuno che sia perché la vita nel divenire è apprendimento e trasformazione.
Nell’essere, un fatto è un flash, qualcosa che appare e scompare: quando c’è invade e pervade la sensazione, l’emozione, il pensiero e il sentire in modo molto intenso.
Quando il fatto non c’è, c’è spazio. Allora uno spazio si alterna ad un fatto e a un’altro spazio senza l’attesa per il fatto che verrà.
Non c’è attesa e non c’è rimpianto e, se affiorano, un atto di volontà riconduce a zero.
Naturalmente, lo spazio stesso è un fatto.
L’esperienza del quel che è, è cristallina: il fatto splende della propria luce, privo di aggiunte.
L’osservatore è neutrale e privo di soggettività: è consapevole dell’osservazione che accade, come è consapevole dello stato di neutralità che lo avvolge e lo azzera.
Il fatto emerge tra i fatti, non c’è rumore, né ridondanza; nel silenzio di sé, nel silenzio d’essere, la dimensione dell’essere rende viva e vivida la vita che, quando non è più colta nel suo essere processo, sequenza di fatti con uno scopo, o un senso, è spettacolo che ammutolisce e azzera ogni residuo di divenire e di pretesa d’esserci.
Insisto: quando il processo di disidentificazione è avanzato, l’esperienza dell’essere, del quel che è, azzera ogni traccia d’esistere residua di un soggetto: sgombra il terreno e l’orizzonte appare pulito e agibile, fruibile senza condizionamento.
Il fatto che, sottotraccia, si avverta la presenza di un apparato dedito alla interpretazione, alla valutazione, alla parametrazione e al giudizio non disturba: i due piani convivono; ad un livello di sentire tutto è essere; ad un altro livello, il divenire è anch’esso un fatto.
Il divenire è interno all’essere: quando questo domina, il divenire è in secondo piano; i suoi strumenti – i vari corpi con i loro sistemi sensoriali – sono attivi ma marginali; il sentire con i suoi sensi domina l’intero sperimentare.
Il sistema che chiamiamo persona, individuo, finché c’è incarnazione, è sempre integrato e tale deve, a mio parere, rimanere: la preponderanza di uno stato mette l’altro in secondo piano, non lo annulla e lo lascia disponibile per l’alternanza.
Oscilliamo tra essere e divenire senza sosta.


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5 commenti su “L’esperienza del “quel che è””

  1. Esposizione molto chiara, per me in particolare la frase in cui affermi che il divenire è interno all’essere e che quando questo domina il divenire rimane in secondo piano.

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  2. Lasciare che ciò che accade è un solo un fatto, non è per me così scontato. Mi accorgo durante la giornata, di quante volte tendo ad interpretare, a dare un giudizio. Quel che cerco di fare è di rimanere vigile a questo mio meccanismo e a smontarlo ogni volta che ne divento consapevole. Poi ci sono momenti in cui la realtà mi appare per quel che è, ed affiora una neutralità che porta pace. Per ora comunque è tutto un work in progress!

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  3. Grazie, esposizione molto chiara. Se la leggessi esclusivamente con la mente mi sembrerebbe una bella ma fantastica teoria, fuori di testa. Letta invece lasciando che contatti il sentire genera risonanza.

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