Il cammino di tutti i giorni e lo scacco del proprio esserci

A me sembra che ci sia un equilibrio nella vita tra le conferme alla nostra visione identitaria e le smentite a questa. In altri termini, nel quotidiano troviamo conferme e smentite al nostro esserci come portatori di un nome.
Senza conferme saremmo smarriti; senza smentite rimarremmo immobilizzati dalla nostra presunzione di sapere, conoscere, esserci.
Se questo può essere per la vita nel “mondo”, diverso è all’interno di un cammino spirituale.
Definiamo cammino spirituale quello che ci conduce dalla focalizzazione sul nostro esserci a quella sull’essere: la transizione dalla visione identitaria ed egoica a quella neutrale e impersonale, al ciò che è.
Constato tutti i giorni quanta confusione e quanto equivoco ci sia in merito a questo tema: le persone chiedono ad un cammino spirituale quello che mai potrà dare: la conferma di sé e del proprio esserci.
Sgomberiamo il campo da un equivoco: non sto dicendo che nella via spirituale l’identità viene negletta ed umiliata, ma che viene utilizzata come piede di porco per scardinare la porta che occlude la libertà.
La conoscenza, consapevolezza, comprensione delle proprie dinamiche identitarie sono ingredienti fondamentali per accedere a spazi di consapevolezza non condizionati: conoscere l’identità per superarla, per eliminare il filtro che essa costituisce nel tentativo di definirsi e che è l’elemento che vela la realtà dell’essere.
Conoscere dunque il filtro per non esserne condizionati.
Qualunque fatto della giornata viene piegato e usato nell’ottica di svelare il canto del proprio esserci e della resistenza a lasciare che qualcosa di più vasto si affermi.
Questo è una via spirituale: coloro che camminano con noi, il partner, i figli, i colleghi di lavoro tutti svelano il gioco tra esserci ed essere in noi.
Per poter affrontare questa dinamica interiore occorre aver risolto, almeno nelle sue principali basi, le questioni dell’immagine di sé e del proprio diritto ad esserci, altrimenti si porta nella via spirituale una aspettativa che essa non può, se non in maniera secondaria, risolvere.

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Il lavoro 3: la mansione, e chi mi lavora a fianco, mi trasformano

Il lavoro è relazione: per giorni, mesi, anni abbiamo al fianco delle persone con cui trascorriamo più tempo che con la nostra famiglia.
Chi sono costoro? Parlano delle loro vite, li ascolto? Sollevano in me sensazioni, moti di simpatia e di antipatia, fascinazioni e avversioni, giudizi senza fine, gelosie, ammirazioni, paure.
Otto ore al giorno la presenza dei miei colleghi di lavoro suscita in me una infinità di processi di svelamento, di messa in discussione, di crisi anche.
Se voglio vestire i panni del giudice posso farlo e dispenserò sentenze: se voglio osservare che cosa, attraverso il lavoro comune, l’altro produce nel mio interiore mettendomi a nudo, posso fare anche questo. Posso scegliere.
Qualunque sia il mio ruolo, la mia mansione, l’ambiente di lavoro è un organismo che pulsa insieme e produce processi nell’intimo dei singoli: il fare, il produrre è il collante, ciò che tiene insieme l’organismo, ma ciò che viene lavorato va ben oltre il manufatto prodotto: ciascuno lavora il proprio interiore grazie a come lavora e a con chi lavora.
Ciò che ci cambia è sempre la relazione: tra noi e il lavoro che eseguiamo; tra noi e chi ci lavora a fianco.
La nostra e altrui trasformazione interiore è il vero scopo del lavorare: come sciocchi crediamo che lavorare sia produrre qualcosa, ma non è così: lavorare è trasformare noi stessi grazie alle mansioni e alle relazioni molteplici che nel corso della giornata prendono corpo.

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Il lavoro 2: essere dediti

Che cosa significa essere dediti al lavoro che si sta compiendo?
Significa riconoscerlo come unico fatto di quel presente, essere consapevoli di tutto quello che la mente aggiunge su quelle operazioni semplici o complesse che stiamo compiendo e lasciarlo andare, non coltivarlo, di qualunque natura sia quell’aggiungere.
La dedizione libera dal condizionamento della mente rende quella operazione fuori dal flusso del divenire, la rende fatto esaustivo in sé.
C’è l’operazione, c’è l’operatore, c’è l’accadere: la dedizione sgombera il campo dal passato e dal futuro, dal lamento e dal giudizio ad esso collegato.
Se c’è dedizione, quell’operazione è tutto il nostro orizzonte esistenziale: dentro quel piccolo fatto si libera il senso stesso dell’essere e dell’esistere.

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Il lavoro 1: trovare un’occupazione è trovare un teatro d’esperienza e d’esistenza

Il lavoro occupa molta parte del nostro quotidiano ma spesso lo viviamo come qualcosa a sé, come fosse l’elemento collaterale e faticoso del nostro esistere quotidiano.
La nostra vita sono le cose che ci piacciono, gli affetti, il tempo libero: non vedendo chiaramente l’attitudine della mente a dividere, a frammentare, non ci rimane semplice leggere la nostra vita in modo unitario.
Qual è l’elemento che rende una e inscindibile la nostra vita? La capacità di divenire persone migliori attraverso le esperienze, tutte le esperienze.
Se si ha chiaro questo, se si è consapevoli che ogni giorno, ogni ora la coscienza sperimenta e amplia il proprio sentire, allora possiamo incominciare a parlare di quel tempo rilevante che ogni giorno trascorriamo fuori casa, insieme a persone che non abbiamo scelto, in situazioni non sempre gratificanti.
Un lavoro occorre innanzitutto trovarlo e di questi tempi non è semplice.
Un lavoro è una possibilità esistenziale: un teatro creato dalla coscienza nel quale avvengono le scene che questa proietta.
Un lavoro, prima di essere un luogo di produzione, è un ambito di esperienza del sentire: se non ci è chiaro questo, non ci sarà chiaro niente del processo del trovarlo, dell’esercitarlo, del perderlo.
Trovare un lavoro dunque è un’esperienza esistenziale: i fattori sociali hanno la loro importanza e, come in questo tempo, possono essere molto ostacolanti, ma la possibilità di impiego dipende in ampia parte da una motivazione interiore, da uno slancio, dalla disponibilità a mettersi in gioco, a spendersi e impastarsi nelle situazioni che si presentano: a portare se stessi fuori dall’ambito del conosciuto, ad andare verso l’ignoto.
Questo ignoto spesso si offre nelle vesti di lavori precari, parziali, non corrispondenti alla propria aspettativa.
Quanta forza creativa, dedizione, volontà sono richiesti ad una persona per creare le scene della propria manifestazione? In una società imbalsamata e vecchia l’impulso creativo fa difficoltà a trovare uno spazio, ma questa è la sfida.
Creare il teatro rappresentativo del proprio esserci nel mondo: osare esserci e proporsi.
Uscire sapendo di avere diritto ad uno spazio d’esistenza; se necessario adattarsi, piegarsi, accogliere le opportunità sapendo che una ne prepara un’altra;
vivere ogni scena come il proprio tirocinio esistenziale, la propria possibilità di conoscersi, divenire consapevoli, comprendere.

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