La disconnessione è possibile nella stanchezza di sé [sentiero46]

Come comportarsi di fronte all’altro che è identificato nei suoi processi e non riesce a districarsi?

Quando una persona non è pronta a lasciar andare il suo esistere ed è identificata con un’emozione, un’idea, un sogno, non possiamo parlare di disconnessione, mancano le condizioni di base: la stanchezza di sé, la consapevolezza del limite della propria modalità esistenziale.

La disconnessione è una pratica che può cambiare una vita, ma è totalmente inutile e improponibile laddove non sia già maturata una visione critica di sé. Se la persona ritiene che l’identificazione con le proprie emozioni e idee sia irrinunciabile, allora noi possiamo solo tacere e lasciarla ai suoi processi.

Possiamo dire una parola solo quando il terreno è stato arato dalla vita, il dubbio sull’identificazione è già germogliato, la persona è già nella fecondità della crisi: nel ventre della crisi una persona diviene più malleabile e sviluppa quella che chiamerei l’intelligenza della soluzione.

Per il resto, noi viviamo la nostra vita, sappiamo che possiamo rispondere solo ad alcune domande, a poche limitate domande e in modo imperfetto; sappiamo che per altre domande non abbiamo risposte adeguate, o perché non abbiamo ancora sperimentato, o perché appartengono a un sentire già acquisito da tempo e non abbiamo energie per tornarvi.
A quelle domande risponderanno altri più competenti di noi.

Se viviamo in noi la disconnessione, il lasciar andare, la resa, l’accoglienza, l’osare, questo parlerà per noi con il linguaggio delle azioni, dei silenzi, dei gesti, del vivere; l’altro ricaverà da questa testimonianza d’esistere quello che gli è possibile e gli è necessario e noi vivremo questo senza l’intenzione di voler testimoniare alcunché.

Avrebbero bisogno di disconnettere consapevolmente quelle persone? Si, certo; dalla disconnessione nasce, tra l’altro, l’unica identità sana che possa esistere, quella fondata sulla impermanenza, ma il loro rifiuto parla in modo evidente di come l’identità opera quando non è ancora supportata da un’adeguata comprensione: in questi casi sono necessari un ampliamento del sentire e una visione spassionata di sé. Dalle esperienze della vita e dai suoi processi sorgerà tutto questo: noi osserviamo e tacciamo.

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NB: il testo che compare in questi post in alcuni passaggi differisce sostanzialmente dal contenuto del libro, questo perché, nei dieci anni trascorsi, molte cose abbiamo approfondito e compreso meglio.
D’altra parte, oggi non riusciremmo a esprimerci con la semplicità di ieri mentre il nostro obbiettivo, nel riprendere questi contenuti, è proprio quello di dare a chi ci legge un testo semplice, per un approccio di base al Sentiero contemplativo.

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2 commenti su “La disconnessione è possibile nella stanchezza di sé [sentiero46]”

  1. Le condizioni di base per poter praticare la disconnessione sono dunque la stanchezza di sé, la consapevolezza del limite della propria modalità esistenziale, una visione critica di sé.
    Mi capita di osservare in qualche persona la carenza di queste condizioni, ma anche in me, talvolta, queste condizioni sono sovrastate, magari, dalla potenza di una emozione, da un pensiero particolarmente appiccicoso, dalla certezza di avere ragione, da un bisogno “antico” che mi tiene sotto scacco.
    Allora osservo la mia incapacità di disconnettere, mi osservo tenuta sotto scacco, identificata fino al collo.
    Poi, quando, la presa allenta, talvolta, torno allo zero.
    Grazie per questo post!

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