Ascolto, osservazione, abbandono e marginalizzazione di sé

E’ questo il passaggio, o per lo meno l’inizio, di una inversione (radicale) dal “protagonismo” egoico  ( le esperienze di unificazione, le vedo sempre più in questa prospettiva: corroborano il desiderio di centralità dell’io, esse dicono “guarda quanto sono profondo ed elevato”) alla marginalizzazione proprio di questo “protagonismo”?
Questo chiede Leonardo nella sezione Domande e Risposte del sito.
E’ un lungo processo di marginalizzazione quello che inizia una volta che in noi si sono create le basi di una stabilità.
Senza stabilità non inizia alcuna marginalizzazione di sé, perché, evidentemente, qualcosa ci chiama a concentrarci su aspetti di noi, ci spinge a ricercare per consolidare le aree nelle quali vacilliamo.
Quando la lettura interiore di noi stessi e la qualità delle nostre relazioni è consolidata, allora si apre uno spazio ampio per vivere la routine e per lasciar affiorare la spinta della coscienza che ci conduce verso la dimensione esistenziale del vivere e si sostituisce alla centralità di noi e delle nostre istanze identitarie.
Questo non significa che abbiamo risolto tutto, ma solo che possiamo lavorare nella routine dei giorni senza grandi sballottamenti.
In questo clima, nel quotidiano, emerge la possibilità dell’ascolto, dell’osservazione, dell’abbandono a tutto ciò che dal profondo di sé inizia a frasi sentire in modo più chiaro: tacitato lo sferragliare dell’identità, il sussurro della coscienza pervade il campo.
Nell’ascolto, nell’osservazione, nell’abbandono si innerva l’esperienza dell’essere condotti: non più protagonisti, ma semplici attori.
La marginalizzazione di sé, quando siamo pronti, è un processo non lacerante, non particolarmente doloroso, naturale nel suo fluire e nel produrre trasformazioni tanto minute quanto sostanziali.
Il nuovo processo nel quale ci troviamo naturalmente inseriti, è fondato sui dettagli, sulla consapevolezza e sul lavoro sui particolari e sulle sfumature delle nostre non comprensioni: non è un lavoro d’impatto, richiede una attenzione diffusa, una consapevolezza vigile, una dedizione resistente all’usura.
Il quotidiano, attraverso la presenza dell’altro, le scadenze, gli ostacoli ci presenta gli aspetti che debbono giungere a completamento e a noi non rimane altro che discernere ascoltando, osservando, accogliendo, disponendoci creativamente e mai oppositivamente, scorgendo nei dettagli il simbolo che emerge, l’aspetto di sé che bussa e vuole essere lavorato.
Questo nuovo modo di essere ha bisogno della routine dei giorni, di un ambiente personale non esposto, di una vita discreta e senza eccessi, di un ritmo quotidiano, settimanale, mensile, annuale, di un ambiente umano di riferimento che rafforzi la nostra motivazione e il lavoro di lunga lena che ci attende.
Il passaggio dalla dimensione ego-centrata, a quella che ci coglie ogni giorno nella nostra irrilevanza, ha anche le sue spine, evidenti quando la realtà ci mostra aspetti di noi che mai avevamo sufficientemente visto e ponderato e che ora ci scuotono nella loro inaccettabilità: in quei momenti, la compassione per noi diventa la possibilità di non arrestarsi di fronte alla difficoltà e al limite, l’accoglienza necessaria e prontamente integrata che ci permette di non fibrillare più di tanto e di continuare il nostro lavoro.
Più frequenteremo questa nuova modalità d’esistere e più ne conosceremo le regole e le ecologie, più acquisiremo mestiere: questo richiede molta concentrazione e consapevolezza, non solo su di sé, sulla propria misera egoità, ma su ciò che continuamente giunge come possibilità attraverso i simboli che copiosi la coscienza riversa nel quotidiano e che parlano del lavoro interiore e del superamento di esso, di quell’abbandono radicale alla vita che avviene quando in noi possiamo affermare: “Sia di me secondo la tua volontà!”
Qui ogni residuo di identità si arrende alla coscienza e al suo progetto: qui la marginalità nostra diviene fatto e pratica e crea le condizioni perché il sentire affluisca con sempre minore ostacolo e maggiore fluidità.
In questa dimensione nuova dell’esistere, le esperienze di unificazione sono divenute routine e, se prima potevano nutrire la nostra egoità e contribuire, a loro modo, a creare le basi di una stabilità, ora sono solo fatti integrati nell’ordinario che svelano le possibilità del nostro sentire, alla pari con altri fatti che del sentire mostrano i limiti.


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3 commenti su “Ascolto, osservazione, abbandono e marginalizzazione di sé”

  1. Grazie,
    leggere questi post porta ad interiorizzare sempre di più i concetti perchè diventino esperienza vissuta e svelino il senso dell’esperienza stessa.

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  2. Mi rendo conto, che anche quando nella vita, nel quotidiano, sono richiesti momenti di identificazione, per esempio adesso che sto cercando di costruirmi una attività lavorativa diversa, basta poco magari un respiro per percepire quell’agire (a volte anche ansioso) con più distanza, come fatto della vita e non come un determinante della vita.

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